Sul nostro declino (e come contrastarlo)
Pubblichiamo le riflessioni di un lettore in seguito allo speciale sul L’Ora a cura della nostra redazione
Da un po’ di tempo parliamo spesso del nostro declino. Ma non ci chiediamo quando e perché sia iniziato. Alcune decine di anni fa c’è stato un momento nel quale il dibattito riguardava, invece, se fossimo la quarta o la quinta potenza industriale del mondo. Dovevamo capire cioè se, partendo dal quinto posto che occupavamo stabilmente ormai da un po’ di anni, saremmo riusciti a superare chi ci precedeva immediatamente.
Cosa è successo da allora? Nel frattempo è cambiato il mondo con l’ingresso in forze della Cina e la solita “globalizzazione”. Ma se si fosse trattato solo di questo, saremmo semplicemente andati indietro di qualche posto nella classifica. E non avremmo dovuto porci il problema.
Se declino c’è, dobbiamo cercare di capirlo studiando in dettaglio come stanno le cose. Scopriremmo, magari, che qualcuno qualche studio lo aveva già fatto (all’insaputa di tutti). E che l’Osservatorio Enea per la competizione tecnologica aveva periodicamente esaminato l’arretramento dell’Italia già da molti decenni. Peccato che l’ultimo rapporto risalga al 2007 perché da allora non ha più avuto i fondi per continuare a lavorare (Sergio Ferrari, Paolo Guerrieri, Franco Malerba, Sergio Mariotti, Daniela Palma, L’Italia nella competizione tecnologica internazionale. Quinto Rapporto ENEA, Franco Angeli, 2007).
Una sintesi del problema è rintracciabile in un prezioso libriccino (Società ed economia della conoscenza, Mnamon 2014) di Sergio Ferrari, che di quest’osservatorio è stato l’ideatore. I dati, quindi, li abbiamo tutti. Una componente (molto significativa) del nostro declino riguarda il fatto che non siamo da molti decenni competitivi nell’alta tecnologia.
Da dopo la fine della seconda guerra mondiale è stato chiaro che lo sviluppo economico di un Paese si fonda essenzialmente sull’alta tecnologia ed è istruttivo rileggere la storia di quanto fatto da Vannevar Bush per convincere prima Roosevelt e poi Truman su quanto fosse cruciale investire in ricerca (Vannevar Bush, Manifesto per la rinascita di una nazione. Scienza, la frontiera infinita – a cura e con un saggio di Pietro Greco – Bollati Boringhieri, 2013). Di più, in ricerca di base. Perché solo questo può dare a un Paese la conoscenza profonda, che in termini più efficaci possiamo chiamare “controllo” della tecnologia che stiamo usando. In un Paese col mito della “frontiera”, Vannevar Bush intitolò “Science, the endless frontier”un suo saggio che sarebbe dovuto diventare il manifesto di un nuovo modo di agire. È quello che anche l’Italia stava facendo nella metà del secolo scorso quando con Adriano Olivetti – con Giulio Natta e la Montecatini, con Felice Ippolito e il CNEN – tentò la strada di una vera modernizzazione. Tutto si bloccò allora. Un arresto con cui il Paese ha dovuto molto spesso fare i conti, un precedente che ha a che fare con la Sicilia è stato ricordato in questa testata proprio pochi giorni fa (1).
Per cambiare le cose dobbiamo prima conoscerle e partire dall’analisi delle cause profonde, dal confronto con quanto da noi stessi fatto in altri periodi (fine anni Cinquanta e anni Sessanta) e quanto fatto da altri Paesi in situazioni analoghe. In seguito ai problemi economici scaturiti dalla riunificazione, la Germania ha risolto aumentando vistosamente gli investimenti in ricerca; in Italia sono stati invece vergognosamente ridotti.
Dobbiamo puntare sulla ricerca scientifica per risolvere i nostri problemi, focalizzando l’attenzione sullo stretto legame che esiste tra tutti gli aspetti della cultura. Perché l’alta tecnologia – uno sviluppo tecnologico di punta e duraturo – non sembri un paradosso, c’è bisogno di una base culturale ampia che comprenda non solo le frontiere della scienza ma anche tutta la ricchezza della cultura umanistica. Senza questo passaggio, la tecnologia si riduce all’atto di comprare brevetti all’estero. Un sviluppo tecnologico avanzato è possibile solo investendo fortemente in ricerca di base e anche in tutte le scienze umane. Questa è la premessa, la base da cui partire. E poi c’è una condizione (fondamentale). Un vero, profondo, franco dibattito interdisciplinare con obiettivi chiari, aperto anche al pubblico non specialistico e da riaggiornare di continuo.
Se vogliamo risolvere alcuni problemi (o, almeno, cercare veramente e seriamente di farlo) dobbiamo in primo luogo conoscerne la storia, sapere con precisione cosa veramente sia accaduto e ripartire da lì. È necessaria la consapevolezza che non è possibile risolvere le grandi questioni in tempi brevi. Ma una soluzione è comunque possibile se un problema è impostato correttamente. Contro la logica del “tutto e subito” che imperversa. Social media in testa.
Note
1 vedi: Ninni Giuffrida, “Il giornale L’Ora, alle origini del mito”, 5 Dicembre 2019 – https://www.lidentitadiclio.com/l-ora-ignazio-florio/