Sventola ancora lo “stendardo missionario”
Continuando nella “investigazione” delle opere d’arte già nel Collegio Massimo della Compagnia di Gesù, dedichiamo ora la nostra attenzione ad un gradevole dipinto, sino a un decennio or sono anche lui quasi “scomparso”.
Si tratta della tela con La Madonna che consegna lo stendardo missionario a Sant’Ignazio e a San Francesco Saverio, oggi esposta nella stanza del Rettore del Convitto nazionale “Giovanni Falcone”.
Il dipinto proviene da Santa Maria della Grotta, la chiesa del Collegio dei Gesuiti, dove era collocato nella quarta cappella a sinistra, dedicata ai Quaranta martiri del Giappone. Strettamente pertinente alla collocazione originaria è dunque il soggetto dell’opera, che celebra lo speciale mandato missionario conferito dalla Vergine alla Compagnia di Gesù. La tela pervenne all’attuale collocazione tra il 1916 e il ‘17, quando ebbe inizio lo sconsiderato smantellamento dell’arredo della chiesa e i beni furono trasportati altrove o dispersi.
La storia attributiva dell’opera, già riferita dalle fonti a Rosalia Novelli, figlia del “Monrealese”, e poi al fiammingo Geronimo Gerardi, si spiega considerando le sue caratteristiche culturali, che sono appunto novellesche e fiamminghe. Replica in controparte dell’omonimo dipinto eseguito dal Novelli per la Cattedrale di Palermo, la tela ne ripropone abbastanza fedelmente lo schema in diagonale e le fisionomie dei santi, ma attribuisce al vessillo frusciante e alla calda cromia delle vesti ecclesiastiche una modulazione chiaroscurale e cangiante che manca all’opera novellesca.
Sino a poco più di dieci anni fa l’opera è rimasta abbandonata e in pessime condizioni in un magazzino del Convitto, quando, finalmente, all’interesse scientifico per il recupero (nel contesto dei generali studi appunto sull’antico Collegio Massimo) si è unita una sinergia finanziaria, tra la Fondazione Salvare Palermo Onlus, che ha ricevuto la disponibilità finanziaria grazie ad una donazione privata, e il Convitto Nazionale di Stato Giovanni Falcone, cui l’opera oggi appartiene.
Il restauro, diretto dal Prof. Vincenzo Scuderi, allora responsabile per i restauri della Fondazione Salvare Pa-lermo, è stato effettuato dalla Prof.ssa Serafina Melone, con la sorveglianza del Servizio per i beni storici ed artistici della Soprintendenza per i beni culturali di Palermo, a quella data diretto dalla Dott.ssa Giovanna Cassata.
L’intervento ha consentito di recuperare alla memoria e al pubblico godimento un testo pittorico di grande suggestione, potendo sì bloccare un drammatico degrado che rischiava di compromettere l’esistenza stessa dell’opera, ma anche, e con grande importanza per gli studi successivi, attribuire con certezza l’opera al pit-tore messinese Francesco Calamoneri: la firma “FRAN(CIS)CUS CALAMONERI PIN.(XIT)”, emersa a seguito della pulitura sul gradino in basso a sinistra, ha chiarito infatti che la tela è stata eseguita da un artista di cui conosciamo solo poche notizie biografiche: nato a Messina, dove sarebbe stato allievo di Giovanni Quagliata, fu poi attivo a Palermo come pittore di tele e frescante.
In assenza di riferimenti documentari sulla data di esecuzione dell’opera appare ragionevole riferirla al pe-riodo noto dell’attività a Palermo dell’artista che sembra concentrarsi nel settimo decennio del ‘600. In quel periodo egli eseguì decorazioni ad affresco nella chiesa del Crocifisso all’Albergheria (1664), nella chiesa di Santa Chiara, sotto la guida dell’architetto Paolo Amato e in collaborazione con Antonino Grano (1679), e nella cappella della Soledad (1679), opere per lo più perdute. Tale datazione appare peraltro confermata dalla storia stessa della chiesa gesuitica, che proprio a partire dal 1682 fu interessata da lavori di “abbellimento”, intrapresi sotto la guida dell’architetto dell’Ordine, il “fratello” Angelo Italia. Questi lavori, che comportarono fra l’altro la decorazione a marmi mischi delle cappelle di Sant’Ignazio e San Luigi Gonzaga e la realizzazione di alcuni altari, videro la presenza nel cantiere di un artista del calibro di Paolo Amato.