Toponomastica: le vie di Palermo hanno un’anima che influenza il carattere del popolo che le percorre?
Ma esiste l’anima dei luoghi? James Hillman – a buon ragione annoverato fra i più irriverenti filosofi contemporanei – ha indagato il rapporto quasi erotico che lega una città ai suoi abitanti, indugiando sull’antica Grecia dove i crocevia figuravano sempre abitati da presenze soprannaturali che definivano l’indole di uno spazio mai amorfo. Ogni città ha il suo carattere, forse la sua anima. Se dovessimo esprimere con una parola l’anima di Palermo la definizione giusta è “litigiosa”: il palermitano è irascibile, incattivito da scempi e abituale disorganizzazione. Sempre un po’ arrabbiato. Porta in giro un malanimo su cui si innestano stati d’animo indefiniti, non misurabili con gli abusati parametri sulla vivibilità urbana. Il malumore palermitano è radicato, però rimane vago.
Ma ecco che un giorno quasi per caso ci s’accorge che a Palermo anche i nomi delle strade sono disarmonici. E questo ha la sua importanza. I personaggi a cui una città intitola le vie sono i suoi moderni numi tutelari, anche se a Palermo basta girare l’angolo o attraversare un incrocio ed ecco che le vie risultano intitolate a personaggi che in vita s’azzuffavano. Sulla scorta della sapienza greca possiamo concordare con Hillman, immaginare le tempeste emotive pronte a scatenarsi in quei luoghi battezzati da un ignoto toponomasta sotto il segno della disarmonia. Per restare in centro, càpita che un folto manipolo di autonomisti e separatisti sia posto in stretta vicinanza con i più ferventi unitari: figurarsi il malumore prodotto dalla forzata coabitazione, il continuo recriminare, la reciproca ostilità. Tanto malanimo, stagnante nell’aria peggio delle polveri sottili, potrà forse risparmiare gli ignari individui che fra quelle strade conducono la loro vita? Perché meravigliarsi se la città si mostra sensibile allo spirito litigioso di quanti vengono celebrati sulle lapidi?
Ua rapida ricognizione promette di rivelarsi istruttiva. Restiamo in centro, lato mare. Cominciamo con la via dedicata all’unitario duca della Verdura, che al secolo si chiamava Giulio Benso Sammartino, e osserviamo come rapidamente i casi di individui dall’opposto sentire politico costretti in forzata coabitazione si moltiplichino. Prima di arrivare in via Libertà, le traverse più importanti di via Duca della Verdura sono intitolate al generale Carlo Alberto dalla Chiesa e a Gioacchino Ventura. Il primo ricordiamo tutti chi fosse, di Ventura s’è persa ogni memoria ma era un teatino bellicoso e tenacemente separatista, che in nome dei diritti aviti rischiò di mandare a monte il faticoso cammino verso l’Unità: salvo poi rifugiarsi a Parigi e corteggiare il Borbone, del tutto dimentico delle pretese glorie della patria isolana. Adesso, incastrato fra dalla Chiesa e il duca della Verdura, padre Ventura sembra inoffensivo. Ma chissà che fatica mettere a tacere i suoi proclami sempre un po’ deliranti.
Il “quadrilatero risorgimentale” è il trionfo della zuffa a ogni angolo. Via Ventura continua con via Vincenzo Orsini, ufficiale borbonico ma anche comandante dei garibaldini, per poi proseguire con la strada intitolata allo scultore massone Ettore Ximenes: la traversa dedicata allo scienziato Archimede sembra messa lì apposta per calmare gli animi. Perpendicolare a via Archimede ecco la via che porta il nome del repubblicano e socialista Pasquale Calvi: un raro esemplare di siciliano che guarda oltre lo Stretto, un uomo di larghe vedute. Peccato che sia costretto a incrociare via La Farina, che cordialmente lo odiava sino a orchestrare una vera e propria campagna diffamatoria ai suoi danni. È consigliabile allontanarsi, rifugiarsi nella via che celebra il rito della passeggiata: l’arioso Viale della Libertà sarà stato inaugurato dal governo “rivoluzionario” del 1848, ma ormai dimentico delle sue origini si offre allo shopping con noncuranza blasé. Meglio non soffermarsi a riflettere che parallela a Via Libertà scorre via Marchese Ugo, che sembra onorare un luogotenente borbonico molto odiato e dispotico. Torniamo al “quadrilatero risorgimentale”.
Ecco due intellettuali, Simone Corleo e Gaetano Daita: incrociano via Florestano Pepe, generale borbonico che assediò Palermo durante la “rivoluzione” del 1820 e chissà se da allora i rancori sono stati dimenticati. Via Ricasoli, via Mazzini e via Quintino Sella stanno una appresso all’altra, com’è giusto che sia, e sembrano accerchiate dai siciliani. Quintino Sella era un Monti dell’epoca, un risanatore delle finanze statali a furia di lacrime e sangue: proprio lì accanto c’è via Domenico Scinà, strada dedicata a un uomo che con orgoglio da perdente educava i giovani ad allontanare la «isteria italica», vale a dire l’idea unitaria di gran moda nelle regioni del Nord. Isidoro La Lumia era troppo malinconico per decidersi ad aiutare i “continentali”, a fare da cuscinetto troviamo la via intitolata al marchese di Torrearsa: il quale aveva preso parte al governo del 1848, ma si convertì al più osservante unitarismo per paura delle riforme garibaldine. Oltre via Libertà, la prosecuzione di via Torrearsa è via 12 gennaio (1848), che ahimé viene attraversata da via XX settembre (1870). Difficile che la pace possa regnare fra gli insorti del ’48, sicilianisti quant’altri mai, e i bersaglieri della breccia di Porta Pia. Non va meglio a piazza Castelnuovo: onora il principe che tenne a battesimo la costituzione del 1812, ma al suo centro ospita il Politeama Garibaldi. Di sicuro la vicinanza più sgradita per Carlo Cottone principe di Castelnuovo è però quella con il principe di Belmonte: per un po’ furono alleati, presto si trasformarono in acerrimi nemici e la faccenda si complicò non poco perché erano parenti. Castelnuovo non aveva figli, Belmonte ambiva alla sua eredità e i colpi bassi si sprecarono.
La via intitolata al fatuo principe di Granatelli s’affaccia sulla strada dedicata al serioso Ruggero Settimo, Richard Wagner sembra stare lì in mezzo solo per sedare i tafferugli. Mariano Stabile segna la fine di ogni ardore rivoluzionario, diciamo pure che è un uomo attento alla carriera; ma nella strada col suo nome spuntano due traverse che ricordano uomini di tutt’altro genere, via Salvatore Meccio e via Gaetano Abela: i due patrioti, morti sul patibolo nei tristi anni intorno al 1820, sono divisi da un’incongrua via Velasquez.
Tutti quanti sono contenuti da Via Cavour, che a sua volta origina da piazza Verdi e sembra mettere un definitivo suggello toponomastico alle disarmonie di questo spicchio urbano. I bisticci risorgimentali riprendono nei pressi della stazione ferroviaria, dove a separare via del Vespro da corso dei Mille – strade che celebrano due opposte rivoluzioni – troviamo solo un incrocio: una trafficata terra di nessuno, dove i picciotti stanchi di andare all’assalto possono ogni tanto riposare.