Tra anacronismo e attualità: don Milani e la scuola italiana – parte 2
Quale visione oggi per una scuola democratica e non classista?
Prima di interpretare, nelle conclusioni, le ragioni per cui la scuola della Costituzione non è riuscita a garantire una piena eguaglianza, proviamo a confrontarci con una proposta di scuola “democratica” (che cioè eviti il meccanismo della selezione e favorisca l’emancipazione intellettuale delle classi meno favorite,), pubblicata in tempi recentissimi e, crediamo, portatrice di un progetto politico-culturale condivisibile, quella di Christian Laval e di Francis Vergne1. A parere dei due autori, solo se la scuola si concepisce come istituzione capace di «cambiare valori collettivi e relazioni sociali»2, essa può entrare in antagonismo con la trasformazione, avvenuta dopo il 1968 «della scuola caserma in scuola impresa»3. L’attuale modello di scuola neoliberista, fa riferimento ad alcuni assunti, come la teoria delle competenze, che introducono il criterio dell’utile a scuola, nonché la svalutazione del sapere teorico e la promozione dell’individualismo. La scuola neo liberista favorisce «la tendenza ad atteggiamenti strumentali, aumenta la subordinazione intellettuale degli alunni, evitando che si accostino a un sapere critico e sistemico, «per renderli destinatari di funzioni subalterne della produzione»4; tutto ciò per impedire il realizzarsi agli obiettivi educativi «più invisi alle classi dominanti», ovvero mettere in grado di «determinare collettivamente le regole comuni» ed «essere pienamente responsabili del mondo nel quale si vive», oltre a fare «esperienza di autonomia individuale e di autogoverno collettivo»; ciò permette «di comprendere come la dinamica del mondo dipenda non solo dal carattere individuale, ma dall’agire in comune nelle istituzioni»5. La «tecnopedagogia», invece, subordinando la scuola ai potentati economici, favorisce una «selezione silenziosa», attraverso la «differenziazione dell’offerta pedagogica» la quale, con la scusa dell’individualizzazione, condanna gli allievi a valorizzare esclusivamente le loro doti di partenza, sottovalutando la loro crescita culturale, civile, capace di produrre sapere teorico e critico; e in questo modo rafforza, non casualmente, «la segregazione sociale.»6
Non a caso, nei due, il riferimento a Gramsci è frequente; e non ci si nasconde la difficoltà nel perseguire l’obiettivo, che necessità della figura di un docente-ricercatore assolutamente libero di impostare, metodologicamente e contenutisticamente, il proprio lavoro e che deve, in questo tentativo di «preparare l’allievo all’azione critica», suscitare in lui l’interesse, opponendosi a un contesto socio-culturale che, agendo negli spazi esterni alla scuola, lo spinge verso i comportamenti regressivi della competitività e dell’individualismo. L’insegnante deve, anche per sfuggire alla depressione giustificata dell’attuale situazione storica, trovare forza nel dare un impegno «militante» dal proprio lavoro, consapevole che l’alunno è «un essere sociale», e dunque nel non «separare la didattica dall’esperienza sociale degli allievi», riuscendo a realizzare un compromesso nel fornire consapevolezza «del valore del sapere apparentemente sganciato dalla realtà», per «far uscire gli allievi dall’esperienza immediata», e contemporaneamente «riflettere razionalmente sulla situazione reale del mondo», per «donare al vissuto quotidiano una significazione storica e sociale.»7
Una metodologia ambigua
Conviene a questo punto fare riferimento a un altro studio, scritto nell’urgenza di contestare il provvedimento legislativo che più di tutti aveva condotto a compimento l’ideologia berlingueriana sulla scuola, ovvero la Legge 107, più nota come “buona scuola”, mostrandone proprio il profondo aggancio con l’orizzonte neoliberista. Didattica minima, di Mino Conte8, riporta in copertina un’intenzione programmatica molto significativa: «La Buona scuola è da intendersi come l’avanguardia pseudo-futuristica della conservazione, il luogo del trionfo della logica contabile, dell’impresa come orizzonte normativo totale. Che rivoluzione è mai questa?», in cui si sottolinea immediatamente l’operazione ideologica grazie alla quale una svolta politica reazionaria, voluta da una schieramento formalmente di centro-sinistra, viene presentata come una rivoluzione nel segno del progresso. In questo breve studio compare un capitolo, il terzo, dedicato specificatamente a don Milani e intitolato Risposta alla Lettera9. Il motivo per cui in un testo dedicato alla riforma più devastante che la scuola italiana abbia subito in questi anni debba essere presente, a circa metà dell’argomentazione, un accenno all’opera più famosa del sacerdote potrebbe non apparire evidente. Al centro della preoccupazione dell’Autore vi è però proprio quel concetto di eguaglianza che, secondo la Roghi, i ministri Berlinguer e De Mauro avrebbero inteso affermare, guarda caso proprio richiamandosi al progetto del sacerdote di Barbiana. La strategia di Conte è interessante, tesa a rifiutare alcune contrapposizioni verso l’opera di Milani che partivano da un assunto conservatore, ovvero quello di difendere la logica della selezione imputata alla professoressa. In questo caso la strategia di Conte è opposta, per non lasciare equivoci ideologici rispetto al proposito emancipativo che egli vuole sostenere; ovvero scrivere una lettera a quegli stessi studenti, nei confronti dei quali mostra piena comprensione per le loro rivendicazioni e per la discriminazione classista di cui sono vittime. Per mostrare loro, però, come le strategie didattiche che don Milani auspicava, sono oggi strumentalmente rivendicate proprio da quel potere economico interessato a che la scuola formi sostanzialmente una mano d’opera scarsamente qualificata e per nulla consapevole dei propri diritti, destinata a essere inserita in un mercato del lavoro di scarsa valorizzazione, di poche soddisfazioni stipendiali e caratterizzato dalla perenne precarietà. Una decisa eterogenesi dei fini, che rende il modello di don Milani inservibile oggi per chi ha a cuore una scuola democratica e progressista.
Il fattore di contesto
Prima di indicare brevemente quali sarebbero tali elementi di continuità, preferiamo però anticipare la chiave di lettura che dallo studio di Conte vorremmo trarre. In questo caso l’attenzione dello studioso si concentra esclusivamente sulle osservazioni di carattere metodologico e contenutistico che Milani proponeva, praticamente assenti dallo studio della Roghi, che dunque ne può proporre l’attualizzazione solo sulla base di considerazioni etiche, se non moralistiche, non riuscendo a comprendere l’autentico spirito conservatore che innerva lo spirito pseudo riformatore dei nostri tempi. Lo studio di Conte, pur non essendo a interessato a una ricostruzione storica, mostra proprio come sia indispensabile avere presente il «fattore di contesto»10, quando si pretende di proiettare senza distinguo un’azione politica culturale su tempi che le sono estranei. In questo modo Conte riesce a cogliere l’anacronismo del donmilanismo, nonché la sua valenza ideologica, in quanto fatto coincidere con un progetto conservatore che ha tutto l’interesse -essendo sostenuto da quell’area politica di sinistra che ha fatto proprio il modello socio-economico neo liberale – a presentarsi come innovativo. Questo ci consente di proiettare la lezione di don Milani nel proprio contesto storico, e comprendere sia il carattere liberatorio che la sua Lettera, con tutti i suoi limiti, rappresentò, sia giustificare il consenso intellettuale che intorno a lui si raccolse, e che va letto in opposizione a un determinato ambiente della borghesia italiana che permeava allora la società e la scuola.
A parere di Conte, compaiono nell’approccio di don Milani alcuni elementi performativi, mai sottoposti a verifica e\o falsificazione, che si rivelano identici a quelli che caratterizzano la scuola neo liberale, come anche denunciata da Laval e Vergne. Questo non, ovviamente, per un intento esplicitamente reazionario del priore di Barbiana e dei suoi allievi; ma perché questi, in base a un formidabile fraintendimento, hanno interiorizzato un falso concetto di emancipazione, che realizza in fondo quelle intenzioni con cui la logica del potere (simile all’industria culturale oggetto di studio da parte dei francofortesi) intende costruire un soggettività aderente alle logiche di potere. In questo modo, Lettera a una professoressa ha fornito l’armamentario e lo scudo ideologico con cui la scuola della riforma (la Legge 107 soprattutto) può addirittura giustificarsi secondo un’ottica progressiva, pur svendendo di fatto la scuola e la cultura alle logiche del mercato e del profitto. Potremmo individuare due elementi principali dell’opera: la critica alla funzione docente e la svalutazione della cultura, piegata a una logica utilitaristica; questi presupposti danno come esito un’impossibilità per i meno favoriti di emanciparsi dalle proprie negative condizioni di partenza; con il messaggio paradossale -secondo gli apologeti della politica riformatrice- che tale risultato rappresenterebbe addirittura un vantaggio per i soggetti coinvolti.
La critica agli insegnanti
La critica agli insegnanti è finalizzata a negare che esista una specifica professionalità docente, tanto più se essa è collegata al possesso di una ben precisa preparazione disciplinare. Non è un caso che la figura del maestro-intellettuale venga definita «professorone»11, un’espressione utilizzata anche da Matteo Renzi12, comoda da usare quando non ci si vuole confrontare con adeguate critiche intellettuali, respingendole pregiudizialmente come contrarie alla saggezza del senso comune. La critica della cultura e del sapere teorico, «inteso come privilegio dei signoroni e zeppo di paroloni astratti», si intreccia con la questione della lingua. «La lingua la creano i poveri ma subito ne vengono espropriati, dite»13. Questa visione, corretta se comporta il non rifiuto pregiudiziale di ogni registro linguistico diventa però sterile se afferma la non necessità di padroneggiarli tutti. Se diventa esso stesso atteggiamento escludente, come quello rimproverato ai professori che pretenderebbero solo il registro “alto” per realizzare nella scuola la selezione di classe; fino ad arrivare ad affermare che la stessa grammatica sarebbe al soldo di questa discriminazione. Da questa convinzione seguirebbe un colossale fraintendimento della Costituzione, che vorrebbe tutti uguali, «senza distinzione di lingua»14. L’indicazione infatti di «eliminare ogni parola che non usiamo parlando […] Così spero che scriveranno i miei scolari quando sarò maestro » pone allo studioso giustamente alcune domande: «Siamo sicuri, ancora una volta, che con questa regola dello scrivere si creino le condizioni per l’emancipazione dell’oppresso? E che la migliore politica contro l’oppressore comporta l’esaltare le condizioni di partenza di chi ha subito e subisce ogni forma di ingiustizia […]? Se l’umiliato e offeso, per prima cosa, per riparare l’onta subita, si premura di rinforzare la propria posizione di subalternità e di minorità sociale, ha nuovamente perso. Reazione umana, umanissima, ma che condanna l’escluso a rimanere tale.»15 La critica all’astrazione, a favore del sapere utile, significa già identificarsi nel ruolo di consumatori: «Questo è il linguaggio della performatività, dell’efficacia. il linguaggio neoliberista, la prosa della fase attuale dell’accumulazione capitalistica con i suoi nuovi oppressi consumisti e contenti».16 Laddove si interpreta tale rimozione non nel valore programmatico-emancipativo, garantendo a tutti un’alta formazione; ma auspicando un’uniformità su un livello puramente di pragmatismo deteriore, senza accorgersi che tale impostazione «sancisce l’immutabilità dei rapporti sociali». Come già affermava Roland Barthes, «un tema caro a tutti i regimi forti» è «l’assimilazione dell’intellettualità all’oziosità», laddove l’equivalenza tra cultura e malattia «è un sintomo tipico del fascismo». 17
É pretestuoso quanto afferma Conte, ovvero di trovare «nelle pagine dell’allievo buona parte della retorica oggi imperante nei mondi dell’educazione»?18 Sempre in riferimento alla critica del sapere astratto: «L’autolimitazione del pensiero […] è il miglior regalo che sia possibile fare alla perpetuazione del dominio della razionalità dominante»19. Si tratta in fondo la logica attuale del problem solving («i problemi partiranno da considerazioni di carattere concreto»). Fino al punto di affermare, sia pure in maniera provocatoria, che l’amore per lo studio sia una qualità negativa («dicesi maestri chi non ha nessun interesse culturale quando è solo»20).
(cont.)
Giovanni Carosotti
Note
- C.Laval, F.Vergne, op.cit.
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Ibid., p.5.
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Ibid., p.196.
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Ibid., p.101.
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Ibid., p.44.
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Ibid., pp.98-99.
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Ibid., pp.99 sgg.
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M.Conte, Didattica minima. Anacronismi della scuola rinnovata, libreriauniversitaria.it edizioni, Padova 2017.
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Ibid., pp.93-114.
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Cfr. Sandro Rogari, La Scienza storica, UTET, Torino 2013, pp.30-38.
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Cfr. La Scuola di Barbiana, op.cit., p.13 :«Ma ogni borghese che capitava a vistarci faceva una polemica su questo punto. Un professorone disse: “Lei Reverendo non ha studiato pedagogia.»
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Cfr. Renzi contro i «professoroni del no», Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2016.
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M.Conte, op.cit., p.96.
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M.Conte, ibid., p.97.
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Ibid., pp.97-98.
-
Ibid., p.98.
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Ibid., pp.110-111. Concetto simile è espresso anche da Laval e Vergne, op,cit., p.119: «Ce fut un grande erreur d’une partie du mouvement ouvrier de dénoncer cette culture classique comme “aristocratique” ou “bourgeoise”. E sul valore della teoria, p.40 e 43: «ce n’est jamais l’adaptation aux évidence qui doit diriger l’éducation, mail la distance, le recul, la contradiction […] L’éducation democratique doit doter le citoyens des moyens d’intelligibilité du monde et leur fournir des instruments de résistance aux tendances antidémocratiques et anti-égalitaires».
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M.Conte, op.cit., p.113.
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Ibid., p.99.
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La Scuola di Barbiana, op.cit,, p.110.
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