Tra anacronismo e attualità: don Milani e la scuola italiana – parte 3
Una difficile attualità
Giunti a questo punto, possiamo comprendere il riferimento strumentale all’opera di don Milani, nel momento in cui i governi di centro-sinistra hanno avvertito il bisogno di legittimare la loro azione politica, che con più rigore in questi anni ha assecondato le direttive neoliberiste sulla scuola, provenienti dall’OCSE e da altre istituzioni internazionali.
Non a caso, le priorità di tali progetti riformatori vertono sulla delegittimazione della figura docente e sull’esclusiva promozione del sapere utile, in omaggio ai valori del produttivismo e della svalutazione del sapere teorico; elementi entrambi presenti, come abbiamo visto, in Lettera a una professoressa.
Ma, nonostante queste evidenze, l’operazione risulta in ogni caso una forzatura. Conviene allora valutare l’inconsistenza di quella presunta continuità, affermata da Vanessa Roghi e da noi sopra richiamata, tra don Milani, Berlinguer e De Mauro, che sarebbe particolarmente evidente nella volontà di questi ultimi di eliminare la discriminazione classista tra scuole tecnico-professionali e licei. A rendere credibile tale relazione sarebbe un’analoga posizione –in particolare in Milani e De Mauro- riguardo la lingua, una sorta di condivisione di una medesima teoria linguistica , in grado di smascherare la presunta differenziazione di registro linguistico (e conseguentemente di prestigio sociale) esistente tra i due ordini di scuole. Un’inferenza che ci sembra alquanto debole.
Don Milani voleva denunciare un diffuso conformismo nell’uso della lingua
Don Milani voleva indubbiamente denunciare un diffuso conformismo nell’uso della lingua, prevalente allora. Ma tale puritanesimo linguistico, ancora dominato da un perbenismo in buona parte di origine cattolica, può essere compreso quale legittimo oggetto di denuncia solo se adeguatamente contestualizzato. Vanessa Roghi ricorda, con un inizio volutamente ad effetto del quarto capitolo del suo studio, la provocazione di don Milani: «Il culo, diceva mia nonna, o come dite voi oggi: il sedere. Il culo lo chiameranno culo quando occorre, diceva don Milani, non una volta di più né una di meno, come tutte le altre parole scorrette senza borghesi distinzioni. “Scorrette sono solo le parole inutili o false”». Il sacerdote intendeva certamente rivendicare un diritto di realtà, di verità e financo di dignità alla lingua dei ceti popolari che non potevano avere accesso ad altri livelli di culturizzazione. Le stesse affermazioni oggi suonerebbero però tanto anacronistiche quanto scontate.
Oggi infatti il problema si pone in modo totalmente opposto, in conformità con il mutato contesto sociale e, soprattutto, con le diverse esigenze della classe dominante di controllare i processi di soggettivazione. Già allora, in fondo, il problema riguardo lo statuto di verità dei registri linguistici avrebbe potuto essere affrontato a scuola a partire dalla letteratura: pensiamo al linguaggio della Commedia. Ai tempi sicuramente tale operazione veniva evitata in nome di quel puritanesimo cui abbiamo accennato sopra, fatti salvi alcuni esempi possibili di insegnanti che sceglievano volutamente un’impostazione diversa. L’asprezza del linguaggio dantesco, le volgarità esilaranti di alcune composizioni di Marziale, gli studenti semmai le scoprivano attraverso loro letture autonome, ricercate quasi sempre con compiaciuta malizia.
Il problema del registro linguistico oggi
Oggi tale censura nelle scuole non esiste più. E il problema del registro linguistico si pone in modo totalmente opposto. In nome di quel principio pedagogistico regressivo che pretende di poter individualizzare il rapporto educativo, si afferma la necessità, per motivare l’alunno ad acquisire conoscenza, che tutti i contenuti siano coerenti con il suo orizzonte d’esperienze e con il suo bagaglio linguistico; si invita la scuola a piegarsi al linguaggio semplificato dei media, oppure alla logica del dibattito come è organizzato nei talk show. Viene meno quel compito di aprire a un orizzonte d’esperienza diverso, per mettere criticamente in discussione il proprio orizzonte di senso, inevitabilmente pregiudiziale, così come il proprio modo di esprimersi, confrontandolo con altri modelli. In ragione di ciò, invitare alla scoperta del registro alto proprio della lingua letteraria non ha affatto finalità escludenti ed elitarie come pensava don Milani, ma è in grado semmai di offrire un bagaglio d’esperienza indispensabile in vista della formazione di un sapere critico, che permetta al soggetto di non venire totalmente sottomesso alle logiche di un conformismo diffuso e non consapevole.
Di conseguenza, la relazione proposta tra questione della lingua e il processo di deliceizzazione” che sta conoscendo la scuola italiana, è possibile valutarla positivamente e porla in relazione a don Milani solo destoricizzando e decontestualizzando sia i contributi teorici sia le innovazioni normative che si prendono a riferimento.
La riforma delle scuole tecnico-professionali (in particolare in alcune torsioni già in atto in singole regioni, veri banchi di prova dell’autonomia differenziata), sembra infatti andare in direzione totalmente opposta all’idea di emancipazione educativa prefigurata dalla Costituzione, che immaginava un percorso d’istruzione tecnica legittimamente orientato a valorizzare capacità pratico-operative, che lo studente intendeva innanzitutto potenziare a partire da una scelta di vita personale; nello stesso tempo, però, non si rinunciava al progetto di una più ampia istruzione con adeguati riferimenti culturali, di modo che quell’indirizzo non si piegasse a una pura logica economicistica, ma inserisse la personalità del futuro lavoratore in un orizzonte di formazione della personalità capace di valorizzarne il senso critico, porlo in grado di comprendere il legame tra condizioni di lavoro e contesto storico-sociale e di contribuire in modo creativo all’evoluzione dei rapporti di lavoro stesso; immaginando il proprio apporto non come semplice operatività rispetto a un progetto pre-pensato e a ordini dati.
L’indirizzo anti culturale cui oggi sono costretti gli indirizzi tecnico-professionali
L’indirizzo nettamente anti culturale cui oggi sono costretti ad adeguarsi gli indirizzi tecnico-professionali mortifica non solo questa ambizione auspicata dall’idea di scuola dei padri costituenti, ma si propone proprio di agire sui processi di soggettivazione, per creare quella personalità subordinata cui abbiamo appena accennato. La “comunità educante” rappresenta l’espropriazione alle scuole del progetto educativo (e ai docenti che dovrebbero personalmente configurarlo, grazie anche alla libertà d’insegnamento ancora garantita dall’articolo 33), per affidarlo a soggetti esterni, quasi sempre individuati in figure imprenditoriali. Questi, conoscendo le esigenze del territorio, sarebbero in grado di far emergere quelle richieste che faciliterebbero il futuro ingresso nel mercato del lavoro degli attuali studenti; di conseguenza, forti di questa competenza, tali soggetti avrebbero in qualche modo il diritto di indicare alle scuole gli obiettivi didattici, i contenuti educativi, le metodologie d’apprendimento, i criteri di valutazione. Nel caso specifico dell’istruzione tecnico-professionale, questa si orienterebbe cercando collaborazione con le realtà economiche del proprio territorio (qualora ci fossero, poiché non tutte le realtà territoriali del nostro paese sono così fortunate), indirizzando l’organizzazione del curricolo in vista di questo esito occupazionale. Al di là delle imprevedibilità di un percorso così organizzato (potrebbero verificarsi situazioni di delocalizzazione o di crisi aziendali tali da rendere inutile uno sforzo così concentrato verso una specifica abilità), ciò comporta un ridimensionamento di quelle discipline non facilmente inseribili in tale progetto, per sua natura totalizzante. Le discipline non strettamente tecniche dovrebbero scegliere i contenuti non secondo criteri di autonomia disciplinare (una conoscenza generale della storia della letteratura, della progressività della storia umana, e via dicendo), ma il più possibile in coerenza con quel progetto collettivo. Un modo per disperdere le potenzialità formative (principalmente quelle delle discipline storico-umanistiche, ma anche scientifiche, se i rispettivi contenuti devono essere scelti solo in relazione a un obiettivo pratico-produttivo), ed evitare che realizzano quel contributo indispensabile per l’acquisizione di capacità ermeneutiche, senza le quali non può darsi sapere critico.
Un progetto che, come si può dedurre, inchioda l’allievo alla propria condizione di partenza, non scommette affatto su una sua possibile valorizzazione intellettuale e critica, e ne fa un individuo ben integrato nel processo economico di valorizzazione, sebbene senza alcuna consapevolezza dei meccanismi di sfruttamento. Viene così impedita in partenza qualsiasi mobilità intellettuale, e il lavoro tecnico-operaio è inserito in un contesto che non prevede l’inutile ricorso alla cultura. Proprio però sulla base delle ambiguità metodologiche presenti nelle teorie di don Milani, una tale svolta può essere presentata in modo ideologicamente opposto alle sue reali finalità, quasi come riscatto di chi è invece destinato a lavorare in posizione subalterna. Un’idea che, questa sì, contrasta con l’eredità forse più preziosa di don Milani, ovvero il riconoscimento del valore pedagogico della ribellione, della disobbedienza a un ordine che si è in grado di percepire come ingiusto.
La famosa scuola dell’eguaglianza ascrivibile
Ecco allora che la famosa scuola dell’eguaglianza ascrivibile – con un salto mortale concettuale che fa a pezzi un’accurata analisi storica- a don Milani, Berlinguer e De Mauro, si rivela inconsistente, anche peraltro se lo si guarda dall’altro fronte, quello dell’Istituzione liceale, ridotta sempre più a una concentrazione di progetti tecnico-operativi che devono dimostrare la loro immediata validità pratica.
Non si fa allora un favore al sacerdote di Barbiana, né se ne riconosce la grandezza, ritenendolo il nume di un’idea di scuola e di società così lontana dai suoi obiettivi morali. Ricollocare le teorie e le azioni nel giusto contesto storico, evitandone un uso palesemente strumentale, rappresenta l’atteggiamento intellettuale più onesto nei suoi confronti, anche se ciò deve metterne in evidenza limiti, ingenuità e un’eterogenesi dei fini che probabilmente lui stesso non poteva immaginare.
Giovanni Carosotti