La trattativa Stato-mafia
Il primo a parlare di “trattativa” è stato stato il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, nel 1996. Disse di averne sentito parlare da Totò Riina, riferendosi alle stragi che coinvolsero i giudici Falcone e Borsellino. Su queste dichiarazioni si sono basati i PM di Palermo e Caltanissetta nel 2009, dopo aver raccolto le parole di Massimo Ciancimino.
Stato-mafia: il processo sulla trattativa tra i boss e gli uomini delle istituzioni
«Il fatto che Riina sia stato cercato da uomini dello Stato lo ha rafforzato nel convincimento che la strategia del terrore, delle bombe, fosse pagante per cosa nostra» così il magistrato Nino Di Matteo ha spiegato l’inizio di quello che è stato definito il processo della trattativa Stato-mafia.
Nell’anno delle stragi del 1992, lo Stato iniziò a cercare l’intermediazione di Totò Riina (boss di cosa nostra, capo del clan dei corleonesi morto nel 2017) per trovare una soluzione a quello che verrà definito “muro contro muro” tra la mafia e le istituzioni.
Dopo la strage di Capaci, una parte dello Stato cercò, attraverso l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, di avere un’interlocuzione con i vertici mafiosi per interrompere una catena di delitti eccellenti iniziata con la morte dell’europarlamentare Salvo Lima.
Il 41 bis: Giovanni Falcone dichiara guerra agli uomini d’onore
C’è un aspetto politico-istituzionale da considerare.
La prima reazione dello Stato alle stragi del ‘92 (a Capaci e in via D’Amelio, che costarono la vita rispettivamente ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con le loro scorte) si concretizzò con un decreto legge che introdusse, tra le altre regole, il regime penitenziario particolare del 41 bis.
Ma la reazione delle istituzioni sembrava così essersi fermata.
È stato accertato, secondo quanto dichiarato dal procuratore antimafia, Nino Di Matteo, che anche per la possibile conversione in legge di quel decreto si stesse formando in parlamento una maggioranza contraria. Si pensava che per i mafiosi le acque si potessero calmare.
Erano passati solo 57 giorni dalla strage di Capaci ma la mafia decise di non abbassare il tiro e di puntare al giudice Paolo Borsellino.
Anche Raffaele Ganci, fedelissimo di Totò Riina, avanzò delle perplessità dopo la sua decisione di voler uccidere Borsellino a pochi giorni di distanza dall’attentato di Capaci. Ci fu un’ improvvisa accelerazione di un progetto, fino a quel momento generico, di voler uccidere Borsellino.
Si doveva fare a qualsiasi costo.
Lo spiega Nino Di Matteo: una parte dello Stato che si identificava con i vertici dei carabinieri del Ros propose a Vito Ciancimino di trovare una soluzione per porre fine a quel “muro contro muro”, per utilizzare l’espressione utilizzata dal generale dei carabinieri Mario Mori.
Le udienze e le sentenze della trattativa Stato-Mafia
La prima udienza del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia ha avuto luogo a Palermo il 29 ottobre 2012 grazie al lavoro di Nino Di Matteo, Antonio Ingroia, Lia Sava e Francesco Del Bene.
Sedevano al banco degli imputati, per i quali la Procura di Palermo aveva presentato una richiesta di rinvio a giudizio, cinque membri di cosa nostra (Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà) e cinque rappresentanti delle istituzioni (Antonio Subranni, Mario Mori, Giuseppe De Donno, Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri) per il reato di violenza a corpo politico, amministrativo o giudiziario.
Massimo Ciancimino era invece imputato per concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia nei confronti di Giovanni De Gennaro, mentre Nicola Mancino per falsa testimonianza.
I magistrati depositano una memoria al processo di Palermo contro i 12 presunti responsabili della trattativa tra boss e uomini delle istituzioni. L’ex premier Silvio Berlusconi non era indagato, ma veniva indicato come colui che, arrivato al governo 1994, assicura “garanzie” a cosa nostra insieme al suo braccio destro.
Trattativa Stato-Mafia: la sentenza
Dopo anni di udienze e colpi di scena, il 20 aprile 2018 arriva la sentenza storica e il memorabile commento di Nino Di Matteo:
«Che la trattativa ci fosse stata non occorreva che lo dicesse questa sentenza. Ciò che emerge oggi e che viene sancito è che pezzi dello Stato si sono fatti tramite delle richieste della mafia. Mentre saltavano in aria giudici, secondo la sentenza qualcuno nello Stato aiutava cosa nostra a cercare di ottenere i risultati che Riina e gli altri boss chiedevano. È una sentenza storica».
Dopo ben cinque giorni di camera di consiglio, la Corte di Assise di Palermo ha condannato gli imputati Leoluca Biagio Bagarella (28 anni), Antonino Cinà (12 anni), Marcello Dell’Utri (12 anni), Mario Mori (12 anni), Antonio Subranni (12 anni), Giuseppe De Donno (8 anni) e Massimo Ciancimino (8 anni). Assolto l’ex ministro Nicola Mancino, al quale veniva contestato il reato di falsa testimonianza, confermato in grado di Appello.