Una valida alternativa al Salnitriano?
Uova, scaglie, caniglia e messe per il museo di San Martino delle Scale
La vita di un illustre personaggio come il benedettino palermitano Salvatore Maria Di Blasi (1719-1814) (fig.5), che – dagli anni Quaranta del Settecento sino agli inizi del secolo successivo – occupa la scena della Sicilia e dell’Italia, per i contatti che tesse con studiosi ed eruditi della penisola, si intreccia più volte con la storia del museo Salnitriano.
Ancora chierico, il giovane benedettino sente parlare del museo del Collegio Massimo ed, insieme ad alcuni suoi confratelli, decide di andarlo a visitare. Molto interessante risulta la descrizione dell’episodio che Di Blasi, ormai anziano, fornisce nella sua autobiografia, manoscritta e datata 8 agosto 1808:
“Mentre era egli ancor chierico, sentiva parlare del Museo de’ PP. Gesuiti, e sentiva d’esser una raccolta di cose assai mirabili, che davan piacere a tutti i forastieri che la vedevano; e perché stava sempre serrato nell’interno del Collegio Massimo di Palermo, non si apriva, né davasi a vedere se non di rado per farlo vedere a qualche forastiere. Mentre era NN.1 a Palermo col Priore Requesens ottenne di vederlo nell’ora, e giorno comodo a quei PP., e andativi anche col P[adre] D[on] Arcadio Catena, restarono così sorpresi, e invaghiti di tanta varietà di cose nella storia naturale al vedere tanti pesci, e chiocciole non mai vedute tra tante sorti di pietre di varj colori ordinarie, e fine, di pietre del Vesuvio, e del Mongibello [Etna], di mostri umani, e di animali diversi, e specialmente nell’antiquaria di vasi chiamati etruschi, di antiche lucerne, di lagrimatori di figure diverse, di medaglie d’oro, d’argento, di rame e di cento altre cose tutte diverse che all’uscir da colà uno rammentava all’altro ciò, che aveva veduto, e venne allora la voglia e il desiderio di cominciarne uno a S. Martino, e ritornando dopo qualche giorno in quel Monastero, ne raccontarono a tutti que’ Giovani chi una cosa, chi un’altra; e tutti si cominciarono ad intraprenderlo; ma si sapea già che lo Monastero non era in istato di somministrar denaro per questa impresa”2.
Nasce nel 17443 la famosa Wunderkammer siciliana del monastero di San Martino delle Scale (figg. 1-4), della quale molto è stato scritto nel corso degli anni. Una fortuna maggiore, infatti, ha avuto il museo Martiniano rispetto al meno noto museo Salnitriano. Il quale, sebbene più antico e ispiratore del primo, dopo l’acquisizione ad opera del governo italiano nel 1867 subisce un inesorabile e lungo oblio per molti decenni, interrotto soltanto all’inizio del XXI secolo con la riscoperta ad opera dello scrivente4.
Di Blasi, quindi, insieme all’abate del monastero di San Martino delle Scale5, Giuseppe Antonio Requesens, costituisce il museo Martiniano, composto fin dall’inizio da quattro stanze, quattordici anni dopo l’istituzione gesuitica. Ma perché i due benedettini attendono tutti questi anni per ricreare una struttura che possa imitare il Salnitriano?
Forse è soltanto casuale, ma sicuramente singolare, che la più antica descrizione sino ad ora nota del museo Salnitriano sia del 1742, quasi coeva alla nascita del museo di San Martino. La probabile risposta potrebbe averla già espressa nel passo precedente proprio Di Blasi: quando riferisce che il museo gesuitico, almeno in un primo periodo, è normalmente chiuso al pubblico tranne che per qualche illustre forestiero, al quale viene concessa la possibilità di ammirarlo. Il Salnitriano in origine ha quasi esclusivamente la funzione di sussidio didattico-gnoseologico per gli allievi del Collegio Massimo di Palermo.
In un altro passo della sua autobiografia, Di Blasi fa riferimento a “manifatture, di macchine, di cose forastiere non mai vedute in queste contrade”6, probabilmente macchine ed oggetti scientifici presenti all’interno della struttura, così come si trovano nel museo Kircheriano di Roma.
La pittoresca descrizione degli sforzi con cui i benedettini cercano di raccogliere materiale per il costituendo museo chiarisce le condizioni di partenza dei monaci di San Martino delle Scale rispetto al museo del Collegio Massimo di Palermo, sottolineando le differenze sostanziali in ambito museale tra i due ordini religiosi.
Illuminati dalla visione del Salnitriano, infatti, Salvatore Maria Di Blasi e i confratelli cercano prima di radunare oggetti dalle dimore nobiliari dei propri familiari ed amici, mossi dai racconti entusiasmanti del confratello Arcadio Catena7; poi di incoraggiare offerte ed omaggi da benefattori vari; infine di riservare parte del ricavato delle offerte delle messe, celebrate per l’istituzione della futura Wunderkammer, che diventerà un’alternativa valida all’altra palermitana. Trovandosi ancora in una certa ristrettezza economica per il raggiungimento dello scopo prefissato – tanto che il Di Blasi comincia a dubitare della possibilità di riuscire nell’impresa – si industriano nella vendita di uova di galline, che, a quanto pare, favoriscono finalmente la nascita del museo benedettino.
Per non pesare sulla gestione del monastero, infatti, e per cercare di avere una rendita fissa (che consenta l’accrescimento sostanziale del museo in modo da poter essere all’altezza del Salnitriano e dei coevi istituti museali della penisola), Di Blasi escogita “una lecita industria, che credette senza interesse del Monastero, che avrebbe potuto partorirgli ogn’anno le 12. 19., e sino a once 20”8, consistente nella vendita di uova. Il pollaio del monastero di San Martino delle Scale è, di fatto, tra i primi finanziatori del giovane museo. E il monaco benedettino investe il proprio denaro nell’acquisto di centinaia di galline: “Avea egli sul principio intrapreso questo negozio per interessare di nuovo peso il Monastero per il Museo, contentandosi, che si pagassero a lui le galline pel prezzo, con cui si pagavano di mese in mese al venditore di esse in Palermo, con cui eravi il patto; e che pel loro mantenimento gli si dasse quanto il Monastero dava di scaglio, e di caniglia al Cellario di casa, che aveane la cura. Egli dunque col denaro di suo uso fece compra di centinaja di galline nel tempo, in cui si suol verificare il loro frutto; e benché dovesse pagare il di più, ch’era d’uopo per nudrirle, pure gli uovi ordinariamente erano in tanto numero, che pagavano il nudrimento, e davano al Museo un bastante sussidio”9.
In effetti (come si evince dai libri contabili dell’abbazia10), sembrerebbe che sino al settembre del 1772 – quando i Padri Decani assegnano per la gestione del museo una rendita fissa di 12 onze annue – le uniche spese compiute siano di 6 onze annue11, affidate a Di Blasi per l’acquisto della caniglia e delle galline12. Sempre di poco conto risulta, attraverso le notizie fornite dallo Schiavo, l’impegno finanziario dei benedettini rispetto alle 300 onze spese in sei anni dai gesuiti per l’arricchimento del Salnitriano: “i Padri Gesuiti in simili occasioni non ànno [sic] badato a spese, ed ànno [sic] nel corso di anni sei spese once 300”13.
Fedele, in un certo senso, alla Regola dell’Ordine di San Benedetto (Regula monachorum) del 534 dopo Cristo, ora et labora, Salvatore Maria Di Blasi allestisce “una lecita industria”, acquistando 1.300 galline, che gli consente di avere una rendita annua di circa 720 tarì, l’equivalente di circa 24 onze14. Che, insieme alle 6 onze fornite dal convento, raggiunge la somma di 30 onze annue, ancora lontana, almeno secondo quanto riferisce lo Schiavo, dalle 50 onze stanziate annualmente dai padri gesuiti.
In aggiunta a ciò anche l’incontro, avuto già nel 1743, con il canonico della Cattedrale, Domenico Schiavo (1718-1773) (fig. 7), faciliterà il lavoro iniziale. Studioso di antiquaria e futuro protagonista del museo gesuitico, regala medaglie recuperate dalla propria collezione. Da quanto scrive D’Angelo, biografo del padre cassinese, sin dall’inizio don Domenico prende a cuore il museo benedettino ed instaura con il suo ideatore un rapporto di grande stima ed amicizia, tanto da essere definito “l’anima di S. Martino”15.
Che la celebrazione delle messe sia un altro dei primi finanziamenti necessari all’acquisizione di oggetti per il museo viene confermato dal fratello di Salvatore, Giovanni Evangelista Di Blasi, il quale, dal collegio di San Callisto di Roma, il 9 dicembre 1743, ancor prima dell’apertura, scrive: “Godo che il Museo vada avanti, ed io son dietro ad una compra di medaglie, parte in denari, e parte in Messe, onde trattenete le Messe, che avete” e aggiunge: “per adesso ò certe medagliaccie [sic] regalatemi, le quali possono mettersi, perché in principio ogni cosa è buona, e voglio andare alle catacombe [di Roma] per vedere di trovare qualche lucerna sepolcrale”16. Per il museo di San Martino, che sta per nascere ed è carente di mezzi economici e di oggetti di prestigio, anche “certe medagliaccie” all’inizio possono trovare un loro spazio espositivo.
D’altronde i primi acquisti di oggetti per il museo – “medaglie, d’idoletti, d’iscrizioni lapidarie, e di tutt’altro, che con sì tenue somma avesse potuto acquistare” – provengono da Roma grazie all’impegno di Giovanni Evangelista, ma purtroppo sono pochi per la “sì tenue somma” raccolta dai confratelli.
Pure lo Schiavo, anche se non è un benedettino, nel maggio del 1745 accenna alle messe per l’acquisto di materiali, aggiungendo “che non era giusto palesare quest’arcano delle Messe e per politica, e per non venire all’orecchie de’ Gesuiti”17. Il canonico palermitano, quindi, ritiene opportuno nascondere ai gesuiti l’insolito espediente delle celebrazioni, forse per non rendere nota la penuria di denaro a disposizione dei benedettini per la gestione del museo, confermando la competitività culturale con i soldati di Cristo (vedi articolo precedente).
Tra i primi artefici che contribuiscono all’arricchimento del giovane museo di San Martino non può mancare un’altra figura di spicco nel panorama culturale settecentesco siciliano. È il diciottenne Gabriele Lancillotto Castelli, principe di Torremuzza (1727-1792) (fig. 6), il quale si incontra a Palermo con i due studiosi nell’autunno del 1745. I tre diventano inseparabili e, stando alle notizie fornite dal Torremuzza, “si formò quel triunvirato [sic] di lunga e costante amicizia”, che non sarà immune da contrasti a causa delle forti personalità del principe e di Di Blasi18. Tanti sono coloro che in Sicilia, sin dai primi anni di formazione del museo, partecipano alla sua crescita: tra questi don Gioacchino Levanti dell’Oratorio di San Filippo Neri di Messina, Ignazio Cartella da Taormina ed il grecista Saverio Romano.
Dopo aver stretto rapporti duraturi con gli eruditi siciliani (che gli consentono di poter contare su una fitta rete di scambi e compravendite) e dopo aver ormai creato con fatica ed espedienti vari il nucleo originario del museo, Di Blasi decide di allargare i suoi contatti con il resto della penisola. Un valente aiuto viene fornito dai due fratelli del benedettino: Giovanni Evangelista e Gabriele. I quali, viaggiando per i loro incarichi religiosi tra diverse città d’Italia, si adoperano nel creare relazioni proficue per il fratello e per il museo.
Oltre alla perizia antiquaria e numismatica, anche Torremuzza offre al museo importanti contatti con naturalisti francesi come Jean de Baillou (1684 circa-1758)19 e Jean-François Séguier (1703-1784) (fig. 8)20. Il primo, originario della Lorena, si dedica a Firenze ad una collezione di curiosità naturali; il secondo è un botanico di Nimes appassionato di antiquaria, che vive e lavora a Verona. Entrambi – attraverso un’intensa corrispondenza epistolare – scambiano piante, semi, erbe, minerali, fossili marini con Di Blasi.
Già nel febbraio del 1745, infatti, Seguier è pronto a inviare Di Blasi “pesci impietriti, che si trovano nel monte Bolca21 del territorio Veronese” (figg. 9-14) insieme ad “un gran numero di curiosità naturali”, ed in cambio si aspetta di ricevere “qualche curiosità di Sicilia… pochissimo o quasi nulla avendo nella mia collezione di quell’Isola, che tante, e sì belle cose in materia d’istoria naturale contiene”; mentre a settembre chiede delucidazioni su altri pesci fossili, conservati all’interno del Salnitriano e provenienti da Damasco23.
Figg. 9-14. Pesci e piante fossili dal Monte Bolca.
L’epistolario tra Salvatore Maria Di Blasi e Jean-François Seguier – ma soprattutto la storia e le vicende del museo benedettino – non si esauriscono ovviamente con poche lettere24. Attraverso tali notizie è anzi possibile avere contezza del modo singolare con cui nasce, si sviluppa e si accresce la collezione di San Martino delle Scale e di quanto impegno viene profuso dal suo fondatore. Il quale, invece – in seguito all’allontanamento della Compagnia di Gesù da Palermo il 21 dicembre 1767 e con il conseguente abbandono del Collegio Massimo dei gesuiti – per ironia della sorte assumerà insieme a Domenico Schiavo, al principe di Torremuzza e ad altri eruditi un ruolo fondamentale negli accadimenti futuri del museo Salnitriano.
Il differente impegno economico profuso dai due ordini religiosi nella gestione e nell’accrescimento dei due musei e il diverso modo con cui nascono e si sviluppano rivelano non solo le differenze sostanziali tra i due ordini, ma anche una diversa visione del museo. I gesuiti del Salnitriano sono eredi di una eccezionale tradizione museale, che trae origine da un personaggio come Athanasius Kircher, significativo rappresentante di una visione filosofico-pedagogica, che parte da molto lontano (neoplatonismo) e che ha anche come obiettivo l’educazione dei propri studenti del Collegio dei Nobili. Sembrerebbe invece che il museo benedettino nasca quasi per caso: per la passione, la volontà e l’impegno di una personalità come Salvatore Maria Di Blasi, il quale probabilmente, almeno all’inizio, non immagina e non conosce a pieno ciò che si cela dietro l’intelaiatura così complessa del museo gesuitico.
Soltanto la capacità di intessere importanti e profonde relazioni (prima con i dotti dell’isola e poi con gli eruditi della penisola) permette al benedettino di poter competere con il più strutturato, almeno dal punto di vista museale, ordine religioso dei gesuiti. Sino addirittura a superarlo a causa dei tragici eventi che subirà la Compagnia di Gesù come l’espulsione nel 1767 dal regno di Napoli e la soppressione dell’Ordine nel 1773 da parte di Papa Clemente XIV (fig. 15), appartenente all’Ordine dei frati minori conventuali.
Note
1 L’abbreviazione NN. viene sempre usata dal Di Blasi nella sua autobiografia al posto del proprio nome come una formula di umiltà (Nessuno) e si riferisce a se stesso.
2 S. M. Di Blasi, Vita del P. di Blasi Salvatore, manoscritto del 1807-1808 presso la Biblioteca Comunale di Palermo ai segni Qq H 119, 1.
3 Per tale datazione cfr. G. Lancillotto Castelli, Principe di Torremuzza, Le antiche Iscrizioni di Palermo raccolte, e spiegate sotto gli auspizi dell’eccellentissimo Senato Palermitano grande di Spagna di prima classe, Palermo, 1762, Prefaz. p. XXIII, nota (b).
4 Cfr. R. Graditi, Il museo ritrovato. Il Salnitriano e le origini della museologia a Palermo, Palermo, 2003.
5 L’abbazia benedettina di S. Martino delle Scale, posta a circa 548 m. s.l.m., si trova ad una quindicina di km. dalla città di Palermo. Fondata nel VI sec. da S. Gregorio Magno e distrutta dagli Arabi nell’820, viene riedificata nel 1346 da Angelo Sinisio ed ingrandita nel 1770 dall’architetto G. Venanzio Marvuglia.
6 Di Blasi, Vita, cit., c. 12 r..
7 Uomo colto, entra in polemica con il domenicano Antonio Maria Lo Presti per le critiche avanzate sulla liceità delle rappresentazioni teatrali, promosse dai gesuiti per l’edificazione morale e religiosa dei fedeli. Sulla stessa linea della Compagnia di Gesù difende l’amico Salvatore Maria Di Blasi, al quale il domenicano invia una lettera nel 1748, condannando i teatri edificati dagli ordini religiosi. Uno di essi viene realizzato nel monastero di S. Martino delle Scale e Arcadio Catena ne giustifica l’attività. È tra i promotori a Caltanissetta, forse sua città natale, nel 1762 dell’Accademia dei Pastori Imerei, erede dell’Accademia de’ Notturni. Cfr. D. Scinà, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo, Palermo, 1825, II, p. 354.
8 Di Blasi, Vita, cit., c. 12 r. e v..
9 Di Blasi, Vita, cit., c. 73.
10 Archivio di Stato di Palermo, S. Martino delle Scale II, vol. 949, 1772-1773, cc. 20 r., 59 v., 64 r., 105 v..
11 S. M. Di Blasi, Vita, cit., c. 73.
12 ASP, SMS II, vol. 675, 1770-1771, cc. 36, 37, 42; vol. 676, 1771-1772, c. 33.
13 S. M. Di Blasi, Diverse lettere di alcuni dotti siciliani, ed esteri sopra notizie per formarsi un museo di antichità e sulle opere, ed autori, che ne scrivono, manoscritto del XVIII sec. presso la Biblioteca Comunale di Palermo ai segni Qq H 117, 1, f. 2 r..
14 Nella Sicilia del Settecento un’onza d’oro corrispondeva a circa 30 tarì, un tarì d’argento a circa 20 grani o 2 carlini, un grano a 6 piccioli. Per ulteriori delucidazioni sulla monetazione siciliana si legga C. Trasselli, Appunti di metrologia e numismatica siciliana per la scuola di paleografia dell’Archivio di Stato di Palermo. Lezioni tenute negli anni 1968 e 1969, Palermo, 1969. Bibliografia essenziale: R. Spahr, Le monete siciliane dagli Aragonesi ai Borboni, Palermo, 1956, p. 31; A. Della Rovere, La crisi monetaria siciliana, 1531-1802, Caltanissetta – Roma, 1964.
15 G. D’Angelo, Memoria intorno alla vita ed agli studi del P. D. Salvatore Maria Di Blasi, Abate Cassinese del Monistero Gregoriano di S. Martino. Chiarissimo Letterato Palermitano. Estesa Dal Can.o Giovanni D’Angelo ad istanza del Can.o Niccolò Mucoli, manoscritto del 1807-1808 presso la Biblioteca Comunale di Palermo ai segni Qq H 119, 2, c. 27 r..
16 Di Blasi, Diverse lettere, cit., f. 2 v..
17 Di Blasi, Diverse lettere, cit., ff. 5 v. – 6 r..
18 D’Angelo, Memoria, cit., c. 33 r. e v..
19 Jean de Baillou nel 1715 è socio corrispondente dell’Accademia Reale delle Scienze di Parigi e tre anni dopo, giunto presso la corte di Francesco Farnese a Parma, si occupa della realizzazione di fontane e di grotte con automi moventi. Con la fine della dinastia e con la successione al ducato di Parma e Piacenza dei Borbone viene licenziato. Nel 1734 si trova presso il Granduca di Toscana, dove occupa la carica di Direttore generale della Galleria, Intendente delle fortezze, fabbriche, miniere e giardini medicei. Giunta la nuova dinastia dei Lorena a Firenze, Baillou si dedica alla sua collezione, acquistata nel 1749 dall’imperatore d’Austria Francesco I Stefano, che la trasferisce a Vienna, affidandogli l’incarico di direttore a vita dell’imperiale gabinetto di cose naturali.
20 Seguier studia presso il collegio dei gesuiti di Nimes, in seguito si trasferisce a Montpellier per proseguire gli studi di giurisprudenza, per poi ritornare nella città natale nel 1732. A Nimes conosce l’erudito italiano Scipione Maffei, con il quale stabilisce un profondo sodalizio. I due compiono un lungo giro per l’Europa, finché ritornano insieme a Verona. Al periodo veronese è legata la fama di Séguier come botanico e naturalista. Morto Scipione Maffei, nel 1755 ritorna a Nîmes, dove continua a coltivare gli interessi antiquari e naturalistici. Tra le sue opere principali: Bibliotheca botanica, sive catalogus auctorum et librorum omnium qui de Re Botanica, de Medicamentis ex Vegetabilibus paratis, de Re Rustica, & de Horticultura tractant, Hagae-Comitum, 1740; Plantae Veronenses seu Stirpium Quae in agro Veronensi reperiuntur Methodica synopsis, Verona, 1745-1754; Dissertation sur l’ancienne inscription de la Maison-Carrée de Nismes, Paris, 1759.
21 Una località ricca di fossili situata vicino al Lago di Garda, tra Verona, Vicenza e Rovereto.
22 Di Blasi, Diverse lettere, cit., f. 3 r. – v..
23 Di Blasi, Vita, cit., cc. 193 r. – 194 v.. Cfr. Graditi, Il museo ritrovato, cit., p. 13.
24 Per una bibliografia essenziale, per ulteriori notizie sul Museo di S. Martino delle Scale e per avere una discreta conoscenza di parte dell’epistolario di Salvatore Maria Di Blasi si rimanda a M. C. Di Natale e F. Messina Cicchetti (a cura di), L’eredità di Angelo Sinisio. L’Abbazia di San Martino delle Scale dal XIV al XX secolo, Palermo, 1997; V. Abbate (a cura di), Wunderkammer Siciliana. Alle origini del Museo perduto, Napoli, 2001; R. Equizzi, Palermo, San Martino delle Scale: la collezione archeologica. Storia della collezione e catalogo della ceramica, Roma, 2006.