Unorthodox, la miniserie di Netflix
Cosa c’è da sapere sulle rigide regole del chassidismo
di Annalisa La Barbera
I quattro episodi in streaming su Netflix di Unorthodox, ispirati alla storia vera di Deborah Feldman, hanno suscitato la curiosità di milioni di spettatori sugli usi e costumi di questa comunità ebraica.
Dai capelli delle donne rasati a zero all’uso della parrucca, dal divieto di avere rapporti sessuali durante il ciclo mestruale all’accoppiamento ogni shabbat: quello che si vede in Unortodox è tutto vero, ma è necessario fare delle precisazioni.
La cultura occidentale è solita considerare i movimenti storici in modo univoco, come spiega Luciana Pepi, docente di storia e filosofia dell’ebraismo, cioè secondo un’unica accezione, senza sfumature. Niente di più sbagliato se ci si vuole approcciare alla immensa cultura israelita, che di svariati sottogruppi si compone. Anche lo stesso ḥassidismo, o chassidismo che dir si voglia, di cui si parla nella serie, si articola a sua volta in altre piccole correnti con regole ancora più rigide.
Esiste infatti una specifica frangia dello ḥassidismo che collega l’atto sessuale tra uomo e donna all’unico fine della procreazione per colmare il lutto dei sei milioni di ebrei morti a causa dello sterminio della seconda guerra mondiale.
Il chassidismo, però, è un movimento storico molto più antico di quello che si possa pensare. Affonda la sue radici nel Medioevo del XII secolo nell’Europa del nord, secondo alcuni studiosi prima in Germania, per spostarsi poi in Polonia e in Francia. Rappresenta solo una piccola percentuale di ebrei ultra ortodossi della grande comunità giudaica. Nella lingua ebraica, prettamente consonantica, il termine ḥassid significa pio, devoto, buono e l’aggettivo che ne deriva è ḥassidismo o chassidismo. Si tratta di un movimento cosiddetto ascetico perché, secondo alcuni studiosi, e come concorda la Pepi, nasce per influenza della tradizione maggiormente diffusa in Europa e cioè quella cristiana.
Il fitto sistema di regole sociali che uno ḥassid è tenuto a rispettare trova la sua fonte sia nel Levitico dell’antico testamento che nel Talmud, un codice di leggi della tradizione ebraica. È proprio la distinzione tra ciò che è stato istituito da Dio e ciò che è stato stabilito invece dalla legge degli uomini che rende le differenze tra le varie correnti del movimento.
I divieti attinenti alla sfera sessuale ne sono testimonianza. La visione ḥassidica dell’unione tra uomo e donna si discosta totalmente dall’ebraismo tradizionale in cui non assume valenza peccaminosa. Nello stesso Talmud è anzi prescritto che la donna al momento della riproduzione provi piacere. Secondo la Qabalah poi, proprio nell’unione sessuale di corpo e anima, in ebraico nefesh, si esprime la presenza divina.
La serie offre altri spunti di riflessione per sfatare false credenze. La rasatura dei capelli delle donne non è collegata ai drammatici fatti della Shoah ma a quella visione molto rigida del Medioevo secondo cui la vanità è peccato. Soprattutto, la vanità è donna e i capelli da sempre sono visti come simbolo per eccellenza di sfacciata femminilità.
I matrimoni combinati sono oggi ancora le regola, ma il divorzio è consentito dalla tradizione ebraica, sin dall’antico testamento, e può essere chiesto da entrambi i coniugi. La donna, inoltre, può chiederlo se non è soddisfatta dei rapporti sessuali. Da un punto di vista giuridico, tutte le comunità ebraiche sparse per il mondo continuano a vivere in diaspora e sono sottoposte a doppia giurisdizione: gli ebrei italiani, ad esempio, sono cittadini italiani ebrei quindi devono sottostare alla legislazione nazionale se contraggono matrimonio con rito civile.
Se invece il cittadino italiano ebreo è anche di religione ebraica, sarà sottoposto anche alle norme della comunità stessa che ha dei suoi rappresentanti giuridici, cioè un collegio di rabbini che decide a chi devono essere affidati i figli. Un’arma a doppio taglio, quest’ultima, per tutte quelle donne ḥassid che decidono di allontanarsi dalla comunità ultra ortodossa con il divorzio, perché, per la maggior parte dei casi, perderanno la potestà genitoriale.
Le conseguenze per chi decide di abbandonare lo stile di vita ultra ortodosso infatti non sono indifferenti. Nessuno comunque può essere cacciato dalla comunità e allo stesso tempo, nel caso in cui ci si allontanasse volontariamente, non smetterà di essere ebreo.
L’istruzione degli ḥassid non è quella pubblica: seguono infatti un sistema scolastico a parte secondo quanto disposto dai precetti della comunità. Alle donne è inoltre vietato di cantare in pubblico perché ritenuto indecoroso.
In Italia non esistono comunità ḥassidiche, che invece oggi si concentrano per lo più in America, (come nella comunità di Williamsburg nel quartiere di Brooklyn), e a Gerusalemme, dove vivono per scelta in un specifico quartiere, Mea Shearim, seguendo le loro regole, non del tutto condivise dal resto della maggioranza. I chassidim infatti non riconoscono lo Stato di Israele fondato nel 1948; quelli che vivono oggi a Gerusalemme sono parte di una comunità che non ha lasciato Israele durante la diaspora del 70 dopo Cristo.
Secondo la versione ḥassidica, l’attuale Stato è frutto di guerre sanguinose: sarà invece soltanto la venuta del Messia ad istituire la terra promessa del popolo giudaico. Ancora una volta, anche in questo caso, le loro dottrine si distanzino vistosamente dal resto della comunità ebraica tradizionale.
La vita e il romanzo di Deborah Feldman
di Francesco Tusa
La serie Unorthodox è frutto dell’adattamento di “Unorthodox: the scandalous rejection of my hasidic roots”, romanzo autobiografico della scrittrice Deborah Feldman. Gli episodi raccontano in modo quasi del tutto fedele le testimonianze riportate dalla scrittrice. Tristezza, strazio e drammaticità sono le parole chiave che accomunano sia il prodotto televisivo che il libro, in un contesto che mette in primo piano la comunità chassidica.
Quest’ultima si distingue per le rigide regole imposte che riguardano proprio il tabù della sessualità, i matrimoni combinati e l’uso categorico dello yiddish in sostituzione dell’inglese. La Feldman difficilmente si adatta a tali imposizioni e, tra le tante situazioni che vive, dovrà affrontare l’inferiorità della posizione femminile all’interno della comunità religiosa in cui nasce. La scrittrice con gli anni colmerà una personale esigenza di giustizia e un desiderio di conoscenza che la porteranno a ribellarsi all’ambiente circostante.
Dopo essere stata abbandonata dalla madre, Deborah viene cresciuta dai nonni e ha l’opportunità di frequentare l’istituto Satmar (Gerusalemme) in cui si parla solo yiddish. Lì scrive libri dei suoi viaggi segreti, descrivendo il suo stato d’animo e la lotta contro una vita alla quale non riesce a conformarsi.
Tra i tanti temi comuni sia alla Feldman che a Esty, protagonista della serie, risaltano in modo evidente la consapevolezza dell’Olocausto, il matrimonio combinato e il divorzio finale.
L’Olocausto. Deborah Feldman nata a Williamsburg (New York) è allevata dai nonni, sopravvissuti alle tragedie del 1941. Crescendo ha ignorato i suoi bisogni ed è stata costretta a sposarsi e formare una grande famiglia. Durante l’età adolescenziale, il contrasto tra le aspettative dei nonni e i desideri della giovane nipote ha generato un clima conflittuale che Deborah ha spiegato in un’intervista per l’emittente di radiodiffusione tedesca Deutsche Welle:
“Il fatto che fossero sopravvissuti all’Olocausto mi ha fatto capire che la mia sofferenza non poteva essere paragonata alla loro. Non ho mai voluto lamentarmi di ciò che mi stava accadendo perché ero molto consapevole del loro dolore”.
Il matrimonio combinato. All’età di 17 anni Deborah Feldman è costretta a sposare Eli. Nella serie, Esty turbata dalla relazione infelice con il marito Yanki – interpretato da Amit Rahav – cerca di liberarsi dalla pressione schiacciante della famiglia. L’uomo, venuto a conoscenza della gravidanza della moglie, corre a cercarla a Berlino, insieme al cugino, su ordine del rabbino.
Il divorzio. La nascita di un figlio, nel 2006, ha dato alla vita di Feldman una svolta notevole che le ha permesso di restare nella comunità. Tale evento si differenzia dalle vicende di Esty: la giovane della serie Tv chiede il divorzio lo stesso giorno in cui scopre di essere in attesa di un figlio. Qui i destini delle due donne prendono pieghe diverse: Esty infatti decide di recarsi a Berlino, città in cui vive la madre; Deborah invece decide di andare via da Williamsburg e spostarsi in un’altra zona, lasciandosi così il passato alle spalle.
Uno sguardo tecnico alla serie
di Francesco Lodato
La serie Unorthodox, recitata con ampi segmenti in yiddish, è salita alla ribalta percorrendo il solco tracciato dalle serie “Shtisel” ed il film “One of us”, esplorando le varie sfaccettature della cultura ebraica ultra ortodossa.
Come tutte le trasposizioni cinematografiche di opere letterarie, anche Unorthodox ha subito dei cambiamenti in fase di riscrittura. C’è infatti una percepibile discrepanza della componente strettamente autobiografica, ossia quella inerente le tradizioni chassidiche, rispetto a quella costruita dalle sceneggiatrici. Per sviluppare l’azione drammatica, è stato introdotto il secondo grande tema della miniserie: l’integrazione culturale della memoria storica nella Germania contemporanea.
Protagonista della narrazione è la diciannovenne Esther “Esty” Shapiro, portata in scena dalla venticinquenne israeliana Shira Hass. Se il peso comunicativo della narrazione biografica colpisce lo spettatore come un pugno allo stomaco, la protagonista cattura l’attenzione grazie sia alla costruzione tridimensionale in fase di scrittura, che alla bravura di un’abile interprete. Hass è un’attrice capace di gestire soprattutto i silenzi di una storia che oppone una claustrofobia prigionia culturale ad una straniante e confusa libertà esistenziale.
La vicenda drammatica, dai forti contenuti di denuncia, si dipana tra New York e Berlino, mantenendo un costante tono critico e negativo nei confronti della comunità chassidica di Williamsburg, senza però fermarsi a questo.
Sebbene la fuga di Esty dalla soffocante realtà religiosa ultra ortodossa muova l’intero impianto drammatico, la storia scritta tra le righe e nascosta tra dialoghi brevi e spezzati che riempiono scene apparentemente vuote si sviluppa trasversalmente nel corso della miniserie.
La riflessione di Anna Winger e Alexa Karolinski supera gli apparenti confini della cultura chassidica quando, nel quarto episodio, poche parole ben calibrate, danno vita ad un azzardato capovolgimento narrativo (non un plot twist vero e proprio, bensì un concreto ribaltamento delle prospettiva individuale), modificano la visione degli eventi delle prime tre puntate.
Un piccolo dettaglio muta il punto di vista dello spettatore sull’intera vicenda, ampliando lo spazio narrativo ad una valutazione generica della condizione femminile, legata al matrimonio, alla famiglia ed all’interazione tra dell’individuo con la società contemporanea. Scrittura circolare: un elemento che valorizza ulteriormente il contenuto del prodotto audiovisivo attraverso una sceneggiatura gestita con equilibrio. Non solo in relazione alla gestione delle tensione drammatica o alla struttura dei dialoghi, ma anche e soprattutto per il sapiente utilizzo dei dettagli.
https://youtu.be/wt7YcCJwNH0
Sarebbe bello potersi fermare qui, valutando Unorthodox solo dal punto di vista contenutistico, ma anche questo diamante presenta alcune impurità, soprattutto a livello puramente cinematografico.
Come abbiamo già accennato, all’interno della miniserie è presente uno scollamento sensibile tra le due parti di una narrazione divisa tra passato e presente. Un problema che non riguarda la scrittura, bensì la regia, la fotografia ed il montaggio. Dimenticando la lezione di Wim Wenders e della nuova scuola tedesca dei primi anni Settanta, il comparto tecnico non riesce ad accompagnare con la macchina da presa lo svolgersi degli eventi, lasciando il taglio documentaristico limiti la forza espressiva del prodotto. Questo penalizza gli altri attori, i cui ruoli secondari andavano rafforzati attraverso modulazione della luce e movimenti di camera più pronunciati, rendendoli invece poco più che un rumore di fondo rispetto alla bravura della Haas.
Alcuni errori nella gestione della macchina da presa, e parecchie incertezze a livello illuminotecnico, contribuiscono a rendere piatta, a tratti perfino sciatta, la componente tecnica della lavorazione. Una regia praticamente assente, se non in una delle sequenze finali, tiene lo spettatore a distanza dal calore umano così come dalla freddezza dei personaggi, rendendoli in questo modo monocromatici. E vanificando il lavoro di approfondimento psicologico costruito in fase di scrittura.