Il vaccino: perplessità, dubbi spirituali e salvezza
Storia medico-letteraria della lotta al vaiolo dalla Francia all’Inghilterra, da a Napoli a Caserta, passando per la Sicilia
Mentre le sorti del nostro immediato futuro dipendono da un vaccino in via di definizione, e gli annunci si susseguono, le vicissitudini che hanno accompagnato l’affermazione della pratica vaccinale attirano la nostra curiosità.
Sappiamo che le pandemie hanno segnato la storia del genere umano, esistono da quando i grandi assembramenti urbani sembrano fatti apposta per accoglierle: per rimanere in tempi a noi vicini, nel XVIII secolo il vaiolo era fra le più temute cause di morte. Qualcosa per cui non esisteva rimedio. Popoli esotici avevano intuito il principio della vaccinazione che però suscitava molte controversie: ancora nel 1825, papa Leone XII la condannava giudicando che negasse la rassegnazione di fronte al mistero della volontà divina.
Sin dall’antichità in alcune terre lontane s’era diffusa la pratica di inoculare in individui sani il liquido estratto dalle lesioni di malati con lievi forme di vaiolo: l’esperienza aveva insegnato che l’inoculazione causava una forma benigna che immunizzava per il resto della vita. Ma scegliere di introdurre nel proprio corpo un agente infettivo non era cosa da decidere a cuor leggero.
Nel 1734 Voltaire pubblica le Lettres philosophiques, che parecchi guai procurano al loro autore e presto vengono bruciate sulla pubblica piazza. Nell’undicesima lettera – Sur l’insertion de la petit vérole – il filosofo racconta che nella Circassia, ricca di bellissime ragazze destinate agli harem persiani, tutti i bambini vengono immunizzati contro la terribile malattia sin dalla più tenera infanzia: in una minuscola incisione sul braccio s’inserisce una pustola tolta dal corpo di un altro bambino, si provoca così “un piccolo vaiolo artificiale” che basta a immunizzare per il resto della vita.
La pratica era stata imitata dai Turchi, si era diffusa a Costantinopoli ed era stata introdotta in Inghilterra da Emanuele Timoti, un medico di origine greca molto appoggiato dalla moglie dell’ambasciatore inglese in Turchia, lady Mary Wortley Montagu, che aveva fatto praticare l’inoculazione sui propri figli. Nel suo intenso proselitismo lady Mary aveva incontrato molte diffidenze e in Francia le obiezioni erano anche etico/teologiche: è giusto iniettare il male, fare ammalare un corpo sano per preservarlo da un ipotetico male futuro? L’incertezza era grande, la medicina offriva concetti vaghi e generici anche per il contagio descritto attraverso l’immagine di flussi e miasmi: il “favoloso innesto” di cui scriveva Parini nelle sue Odi sembrava magico, meraviglioso. Ma davvero possono i medici imparare dagli ignoranti?
Il medico Angelo Gatti è tra i protagonisti del dibattito. A lungo aveva viaggiato in Grecia, Turchia ed Egitto e s’era convinto della necessità di insegnare la semplicissima tecnica dell’innesto alle levatrici e alle madri, in fondo bastava saper utilizzare un ago. Nel Regno di Napoli, dove fu medico di corte, Gatti praticò gli innesti dal 1771 e, con l’assistenza del medico militare Michele Bonanni, ne diffuse la pratica fra le donne del contado: erano gli anni migliori di Ferdinando e Maria Carolina, nonostante lo stereotipo negativo che ancora li sovrasta i Borbone furono la prima dinastia a sperimentare la vaccinazione propagandola poi nel Regno.
Andiamo con ordine. Il 9 settembre 1777 il demente don Filippo, fratello maggiore di Ferdinando, si ammala di vaiolo e ben presto ne muore. Quell’anno la malattia non s’era limitata a serpeggiare fra la popolazione, aveva provocato migliaia di morti e i sovrani avevano paura come tutti. Nelle famiglie di entrambi c’erano stati casi di vaiolo che con tragica regolarità si erano ripetuti negli anni.
Così, la corte lascia Napoli per andare a Caserta, ma in entrambe le città sta accadendo qualcosa di nuovo: come Ferdinando avrebbe scritto al padre in Spagna, i medici Gatti e Vivenzio stanno vaccinando a tappeto e a Napoli “di tremila che sono stati inoculati non ne sono pericolati altro che tre”; a Caserta, i quattrocento inoculati in una settimana stanno tutti bene. Ferdinando e Carolina decidono di far vaccinare “i ramarri”, i figli Carlo, Teresa e Luisa che sviluppano una leggera malattia mentre continuano a correre e saltare. Il re stesso si fa vaccinare: “dopo essermi fatto le mie divozioni, raccomandandomi al Signore acciò mi illuminasse, mi consultai col mio confessore…”. E manda a Madrid la relazione del medico Vivenzio. Per tutta risposta arrivano aspri rimproveri, Ferdinando prende con tono impertinente: “è vero, ho mancato al mio dovere non chiedendone prima il dovuto permesso, ma la Maestà Vostra si metta nei miei panni, come si dice, e consideri bene la cosa: se io chiedevo permesso alla Maestà Vostra ero sicuro che me lo negava. Lasciarmi venire un male naturalmente e morirmene come sono morti tanti della nostra famiglia, questo mi sarebbe rincresciuto”.
L’attenzione per la vaccinazione diventa una costante della politica borbonica; nel 1789, nel Codice firmato da Ferdinando che regola la comunità di San Leucio, un intero paragrafo è dedicato al vaccino contro il vaiolo. Nell’ospedale San Leucio si pratica la vaccinazione antivaiolosa per i fanciulli utilizzando germi da vaiolo umano.
Nel 1796 l’inglese Edward Jenner avrebbe scoperto che l’inoculazione del vaiolo delle vacche rende immuni al vaiolo umano: s’era accorto che le donne addette alla mungitura, che facilmente contraevano il vaiolo bovino, di rado venivano poi colpite da quello umano. Ed è tanto convinto della sua teoria da contagiare il figlio di otto anni con pus vaccini e poi infettarlo col vaiolo umano per verificarne l’acquisita immunità.
Jenner potenzia la tecnica del “vaccino”, che deriva dal latino “vacca”, battezza l’agente infettivo con un nome destinato a lunga fortuna, virus, e infrange un tabù: possibile che non fosse più valida la classificazione tra specie viventi, che aveva trovato il suo punto di forza nel distinguere e separare? Nel 1798 Jenner pubblica a sue spese, in forma di lettera a un amico, i risultati delle ricerche che stanno mettendo in discussione le teorie dell’epoca; nel 1800 lo scritto è tradotto in italiano e pubblicato a Pavia, per uno dei consueti miracoli di internet si può consultare on line.(https://wellcomecollection.org/works/kdatzdzn). Vi leggiamo come “alcuni medici di questa capitale, bramosi di accertarsi di tali esperimenti, si procurarono dall’Inghilterra dei fili imbevuti dal vaiolo vaccino; e da due celebri soggetti furono con questi inoculati i propri figli”: eroismi da pionieri. Il contagio agiva come una forza magica che superava le barriere fra le specie passando misteriosamente dagli animali agli uomini.
Il 14 marzo del 1801 un vascello della Royal Navy porta a Palermo i medici inglesi Joseph A. Marshall e John Walker, hanno il compito di vaccinare le truppe inglesi stanziate in Sicilia mentre è in corso una delle frequenti epidemie e nella sola Palermo i morti si contano a migliaia.
Come ricostruisce Carlo Knight in un saggio sulla vaccinazione di Ferdinando, il dottor Marshall s’era procurato il necessario pus fresco inoculando il vaiolo vaccino a un mozzo e due ragazzi appositamente imbarcati. Marshall era allievo di Jenner e i sovrani, che aspettavano solo l’occasione giusta, gli chiedono di procedere alla vaccinazione di massa. Nella relazione presentata alla londinese Camera dei Comuni il 30 marzo 1802, è lo stesso dottor Marshall a riferire come venne organizzata.
L’ex seminario dei Gesuiti, l’odierna Biblioteca regionale, è trasformato in Istituto di vaccinazione jenneriana e “non è inconsueto assistere, nel corso delle mattinate dedicate alla vaccinazione pubblica, a processioni di uomini, donne e bambini guidati lungo le strade da un prete che porta un crocifisso per accompagnarli alla seduta”. I preti che vivevano in mezzo al popolo erano per la vaccinazione, a dispetto dello stesso pontefice, ed è la loro presenza ad assicurare il successo di tutta l’operazione.
Viene messa in piedi un’organizzazione che coinvolge i medici delle altre città, incaricati di vaccinare i tanti orfani e trovatelli delle loro giurisdizioni: un “pubblico inoculatore” avrebbe compiuto tutte le operazioni sotto i loro occhi, formando così un buon numero di medici esperti nella pratica della vaccinazione.
Si punta a vaccinare soprattutto bambini, i primi a essere colpiti dalla malattia, che nei rari casi in cui riuscivano a sopravvivere rimanevano ciechi o deformi. Bisogna pure considerare che l’operazione “da braccio a braccio” non era esente da rischi, tanto più che nelle controprove si mettevano assieme bambini vaiolosi e bambini vaccinati, o si inoculava pus vaioloso in pazienti già immunizzati, e allora il pericolo era che oltre al vaiolo si trasmettessero altre malattie come la sifilide. Quindi i bambini, meglio se piccolissimi; nella diffusione della pratica fu essenziale la collaborazione delle levatrici che, avendo la fiducia delle mamme, anche a distanza dal parto riuscivano a convincerle a far vaccinare i loro figli.
In meno di un anno i dottori Marshall e Walker supportati dal sistema sanitario borbonico riescono a vaccinare oltre diecimila bambini, a Napoli viene istituita la Direzione Vaccinica con sede presso l’Albergo dei Poveri; quando i medici inglesi si allontanano le vaccinazioni continuano con la guida dei medici di corte Michele Troja Antonio Miglietta.
In Sicilia, le Osservazioni sopra il vajuolo vaccino stampate Palermo dal dottor Marshall erano il testo di riferimento per una piccola pattuglia fra cui si distingue Giovanni Bellina: a Palermo le vaccinazioni si effettuavano un giorno la settimana presso l’Ospedale Civico, al Bellina viene data la missione di “inoculare in tutti i paesi, di esser l’apostolo della vaccina”. Vengono fondati appositi stabilimenti che fungono da “depositi del semenzaio vaccinico” e c’è tutta un’organizzazione con professori vaccinatori, i migliori diventano “suddirettori” della provincia.
Nel 1806 il medico Michele Troja segue la corte nella sua seconda fuga a Palermo mentre a Napoli Giuseppe Napoleone cambia il nome della Direzione Vaccinica sostituendola con una Società Reale d’Incoraggiamento e il lavoro di vaccinazione continua. Ogni comitato provinciale doveva ogni anno consegnare un resoconto, il dottore Miglietta pubblicava degli Opuscoli sulla vaccinazione dove scriveva che a Napoli negli anni 1808/1809 erano state vaccinate 220 mila persone. La Statistica vaccinica dodicennale, compilata nel 1819 ottenne gli elogi dei colleghi medici francesi e inglesi. Il 6 novembre 1821 un decreto di Ferdinando rendeva la vaccinazione obbligatoria nel Regno delle Due Sicilie.Un po’ diversa la situazione in Sicilia. Nel 1803 Giovanni Bellina aveva pubblicato a Palermo le Istruzioni generali pratiche per il nuovo metodo di inoculare il vaiolo e tutto sembrava tranquillo. Nel 1839 le “Effemeridi scientifiche e letterarie per la Sicilia” ricostruivano gli eventi riconoscendo che i medici “degnamente risposero agli incarichi ricevuti”.
Il dottore Bellina deve però avere avuto i suoi problemi se ancora nel 1839 le “Effemeridi” scrivevano di un’ostinata ignoranza che ne contrastava il successo “malgrado i dotti e il fatto la smentissero ad ogni istante”. Ma il governo era attento. Nel 1812 aveva disposto che la Deputazione generale de’ proietti – che s’occupava dei tanti bambini abbandonati ed era un organo centralizzato – sorvegliasse le vaccinazioni nei Comuni; s’era inoltre disposto che nelle Università di Palermo e Catania non ci si potesse laureare in medicina se non si dimostrava di “essere appieno versati nello esercizio pratico dell’innesto”. Nel 1818 veniva creata a Palermo una Commissione centrale di vaccinazione, nelle altre città c’erano le Commissioni provinciali e si pubblicava un periodico, il Giornale di vaccinazione per la Sicilia, che ancora usciva nel 1847.
Non per questo erano cessate “le tristi parole del volgo”. Forse perché, suggerivano le “Effemeridi”, l’allontanamento delle epidemie di vaiolo prima così frequenti ne aveva diluito il ricordo: il vaccino aveva lasciato in vita anche i suoi più ostinati detrattori.