Violenza, corporeità e normatività. Una riflessione sulle vittime dell’Olocausto
Cosa rende il mondo un posto vivibile? Quali vite sono considerate tali? Quali invece non sono degne di essere definite “umane”? La domande al riguardo potrebbero continuare e, secondo molti, formare una catena infinita a cui non è possibile trovare una risposta esaustiva.
Secondo Judith Butler, filosofa post-strutturalista statunitense, è impossibile rispondere a tali quesiti se non si prende innanzitutto in considerazione il rapporto imprescindibile tra noi, gli altri e le norme. È proprio questo determinismo reciproco, infatti, che influenza le nostre vite o meglio che definisce: siamo ciò che siamo sempre a partire dalla comunità in cui ci troviamo immersi. Fin dalla nostra nascita, per mezzo della nostra corporeità, continua la Butler, siamo consegnati ad un mondo fatto di altri, cioè alla vita sociale in cui il corpo stesso si costituisce.
Visto l’imminente arrivo della giornata della memoria cogliamo l’occasione per porre l’accento su questa tematica assai delicata e che viene spesso considerata velleitaria, senza soluzione. Nel ricordare i tragici fatti accaduti durante la seconda guerra mondiale possiamo notare che questo contatto con l’altro si manifesta nella sua forma più esasperata e penetrante: la violenza. È nella violenza che l’essere umano rivela il suo lato più oscuro e meschino, mentre le nostre vite vengono totalmente controllate e “disfatte” ( termine chiave per comprendere il pensiero butleriano) dal libero arbitrio dell’altro. D’altronde il fatto che le nostre vite siano strettamente dipendenti l’una dall’altra può significare anche un rovescio positivo della medaglia, ovvero che tale connessione è indice anche di una possibile costruzione di una solida base politica e sociale che porti vantaggi e benessere nella vita di tutti. Tornando al nostro tema di partenza, quindi, una soluzione possibile ai quesiti sopra esposti potrebbe essere quella di trasformare il dolore in una risorsa politica.
Dire, perciò, che la nostra possibilità di sopravvivere dipende dagli altri, significa che le nostre vite sono precarie, costantemente instabili. Alla luce di tale precarietà e al fine di combattere l’oppressione futura, è necessario comprendere non solo che esistano diversi modi di prendersi cura e di preservare la vita, ma anche prendere coscienza del fatto che purtroppo non sempre le vite degli individui vengono considerate egualmente importanti. Per comprendere maggiormente questo concetto poniamoci un altro interrogativo: “Ci sono vite considerate degne di essere curate e preservate e altre no? Cosa definisce il confine tra l’una e l’altra?”
Questi quesiti è possibile applicarli oggi non solo in riferimento alle vittime dell’Olocausto ma a tutte le minoranze che sono poste ai margini della nostra società e che subiscono silenziosamente ogni giorno violenze. La Butler stessa per esempio, nota soprattutto per aver rimesso in discussione la nozione di genere, si pone questi stessi interrogativi in riferimento alle minoranze sessuali. Potremmo far riferimento anche alla celebre citazione di Fanon, filosofo francese che si schiera in prima linea nel movimento contro la decolonizzazione, quando sostenendo che «il nero non è un uomo» vuol riferirsi alla trasformazione progressiva del concetto di “umano” che assume sempre più una connotazione razziale. Nonostante la categoria dell’ umano si sia infatti evoluta, secondo Fanon, in senso escludente ciò non comporta che chi ne viene escluso non possa tentare di andare oltre la categoria stessa e spianare la strada per un futuro diverso. L’Obiettivo finale di questa riflessione, in questi giorni di particolare sensibilità, è quello di riuscire a comprendere quali siano davvero i confini-limiti culturali dell’uomo che hanno portato e continuano tutt’ora a scatenare tali discussioni e comportamenti violenti e cercare di oltrepassarli.
Per approfondire la redazione consiglia i seguenti testi:
- Butler, Fare e Disfare il genere (2004), Mimesis, Milano, 2016
- Fanon, Pelle nera, maschere bianche: il nero e l’altro (1952), Tropea, Milano 1992