Violenza di genere: cronaca o storia?
Lo sguardo sul passato ancora una volta offre un angolo visuale straordinario con l’opportunità, in questo caso, di meglio capire come la violenza nei confronti delle donne e dei bambini non è un fatto privato, ma un fenomeno sociale e “culturale”, che affonda le sue radici nella asimmetria dei ruoli tra uomini e donne, tra adulti e minori, e nella gerarchizzazione di tali rapporti. Per secoli nei rapporti interpersonali e nelle famiglie ha imperato l’idea della diseguaglianza fra i sessi e della subalternità della donna e dei figli alla volontà del marito e del padre, i quali a loro volta seguivano le regole della società in cui vivevano ed erano pertanto convinti di fare il loro bene quando li obbligavano, anche con la forza, a compiere scelte adeguate al loro rango. Ricordiamo tutti il celebre episodio, filtrato attraverso l’inimitabile penna di Alessandro Manzoni, della monaca di Monza costretta a entrare in convento contro la sua volontà, stremata dalle minacce e dai maltrattamenti subiti in famiglia.
Perfino il mito dell’origine dell’antica Roma si fonda su un atto di violenza perpetrato ai danni delle donne, il rapimentocon la forza delle donne sabine da parte di Romolo e dei suoi, episodio dal quale avrebbe tratto origine il popolo romano che a quel momento scarseggiava di popolazione femminile e raccontato nelle fonti da Livio e da Plutarco e qui raffigurato, nell’immagine che proponiamo in testa all’articolo, nel quadro di Pietro da Cortona, Il ratto delle sabine.
Le fonti giudiziarie e narrative sono piene di storie di violenza. Spesso in quelle medesime fonti gli episodi di violenza trovano anche una sorta di “giustificazione” da parte dei loro attori nella convenzione sociale e nella ideologia dell’onore familiare. Nel caso dell’antica Roma, la giustificazione era data dal mescolamento dei popoli da cui essa avrebbe tratto origine e dal rituale di riconciliazione tra i due popoli, celebrato con il matrimonio tra Romani e donne Sabine. Nel caso delle giovani donne costrette ad entrare in monastero contro la loro volontà, dalle convenzioni sociali della ideologia nobiliare.
Non venivano percepiti come tali né dagli autori della violenza, né dalle vittime. Ancora oggi la maggior parte delle violenze si consuma entro le pareti domestiche senza essere denunciata perché vissuta in un contesto culturale di sopraffazione, in cui l’abuso non sempre è percepito come crimine e in cui le vittime spesso sono dipendenti economicamente dai responsabili della violenza stessa.
Nel libro recente di Cesarina Casanova, Per forza o per amore. Storia della violenza familiare nell’età moderna (Salerno Editrice 2016) gli esempi in tal senso sono ancora più numerosi e di varia tipologia. Restituiscono storie di menage domestici, stili di corteggiamento, rapporti brutali come abituali e comuni ad ampi strati della società, non necessariamente quelli inferiori. Donne e bambini che si rivolgevano ai tribunali dell’epoca pretendendo ascolto ci dicono molto non solo degli oltraggi subiti, ma soprattutto della cultura diffusa e condivisa perfino dai magistrati, che ritenevano leciti tali comportamenti e l’esibizione della forza nei confronti dei più deboli.
Ancora una volta – scrive la Casanova – è dal passato che emergono le peggiori manifestazioni di radicata misoginia.