Vivere una magione nobiliare: strutture organizzative e funzionalità operative
Abstract: ho cercato di sintetizzare in queste poche pagine i primi risultati di una ricerca rivolta a ricostruire il funzionamento giornaliero dei palazzi nobiliari palermitani fra ‘600 e ‘700. Ho tentato di individuare ruoli e funzioni utilizzando lo strumento della contabilità tenuta dal Maggiordomo struttura apicale responsabile della gestione del complesso meccanismo organizzativo. Cuochi, buffoni, paggi, cameriere, palafrenieri, schiavi ricamatori si affollano all’interno delle mura del palazzo e abbiamo cercato di capire i loro ruoli. Infine ultima riflessione sulla gestione del “buio” prima dell’introduzione del petrolio, del gas e infine dell’elettricità. Buona lettura.
Ninni Giuffrida
La galleria
Il piano nobile, con i suoi saloni, le specchiere e le luci è il palcoscenico sul quale si recitano le principali manifestazioni di celebrazioni della famiglia: ricevimenti più o meno importanti; pranzi di gala; balli. È il luogo designato alla rappresentazione del potere. Per realizzare il tutto sono necessari numerosi attori. Utilizzando, sempre, le annotazioni contabili del maggiordomo si è ricostruito un pranzo di gala che si svolge proprio nel piano nobile del palazzo.
I protagonisti della rappresentazione sono: Bartolomeo Ranzullo, Maestro di sala, che coordina una squadra di 6 paggi addetti a servire a tavola; lo Scalco e il Gentilhombre de copa. In casa Montalto troviamo Tomaso de Aversa con il ruolo di Scalco al quale è affidato il compito di trinciare le diverse portate e predisporre il cibo nei piatti (impiattamento) che verranno serviti ai commensali dai paggi. Più articolato il servizio per i vini che coinvolge sia Peregrino Anselmo, cantiniere, che, con il suo aiutante, predispone i vini da accoppiare ai diversi piatti, sia don Fabrizio Oriolis Gentilhombre de copa il quale provvederà a fare servire i vini a tavola secondo la giusta sequenza degli abbinamenti collegati alle vivande servite. La predisposizione dell’arredo della tavola è affidata a Tomas Villencio, responsabile della custodia e della gestione dell’argenteria, e a Pedro al quale è affidato il tovagliato. Genolfo e Pietro Paolo sono i musici che hanno il compito di predisporre la colonna sonora che allieterà i commensali durante il pranzo. Giuseppiglio “il buffone” ha il compito di rallegrare e di suscitare il riso.
Una nota di colore: ogni casa nobiliare elabora una propria divisa per i paggi che fornisce a proprie spese insieme alle scarpe e alle calzette.
La gestione della pulizia
Per tenere in ordine le stanze, curare la biancheria e gestire la pulizia dei saloni il Maggiordomo ha a disposizione 10 cameriere di primo livello denominate “donna” alle quale corrisponde un salario di tarì 2.10 e altre 8 donne che affiancano le cameriere come aiutanti alle quali è corrisposto un salario di tarì 1.10.
La luce
Abituati ad essere immersi nella luce quando tramonta il sole poco ci curiamo di approcciarci al problema della illuminazione del palazzo. La lettura del volume di Beatrice del Bo, L’età del lume Una storia della luce nel Medioevo, Il Mulino, 2023, apre un approccio nuovo e stimolante sul problema della gestione del “buio” che caratterizza la realtà del quotidiano sino alla svolta epocale dell’introduzione dell’illuminazione a gas – petrolio, prima, e delle lampadine alimentate dall’energia elettrica poi.
Il buio condiziona tutto: gli spostamenti fuori dal palazzo; quelli all’interno del palazzo; lo svolgimento degli eventi quali i balli di gala o i ricevimenti.
Anche in questo caso la contabilità del Maggiordomo ci permette di ricostruire le strutture che si approntano per combattere il buio e che la del Bo ha ampiamente descritto.
Dalla contabilità del Maggiordomo possiamo ricostruire come nel secolo XVII nel palazzo il “buio” sia gestito secondo moduli immutati da secoli:
candele di cera, costosissime in quanto una candela del peso di circa 100 grammi costa 1 tarì pari al salario mensile di uno schiavo, ad uso solo del principe e dei suoi familiari;
candele di sego le meno costose e le più usate all’interno del palazzo destinate ad illuminare locali come la cucina, il guardaroba, la cavallerizza o l’ufficio del contabile anche se facevano un odore nauseabondo derivante dalla glicerina in esse contenuta;
torce di cera per illuminare i saloni durante i ricevimenti del peso di chilogrammi 1,500 ciascuna del costo di tari 19;
candilotti di cira del peso di 120 gr. circa per essere usati nei candelieri e nei lampadari dei saloni;
lamparelle, piccole lampade alimentate ad olio che sono usate al posto delle candele;
lampioni, alimentati ad olio che illuminano la scala, il patio, gli ingressi e altri luoghi che segnano il passaggio fra le diverse aree del palazzo;
torce di vento per gli spostamenti notturni delle carrozze e delle portantine lungo le strade buie della città per recarsi ad un ricevimento o ad una cena.
Praticamente sino all’Ottocento, quando l’evoluzione tecnologica permette l’uso dell’olio di petrolio e del gas per l’illuminazione, la battaglia contro il “buio” si combatte sempre con gli stessi strumenti messi a punto in età romana. Bisogna aspettare i primi del ‘900 affinché l’elettricità si apra un suo spazio e vinca la sua battaglia contro “il buio”.
Una riflessione finale
La complessità della gestione di un palazzo nobiliare del Seicento da queste note tratte dai “libri di dispensa” appare evidente. Tutto si regge su una forza lavoro numerosa con specifiche qualifiche professionali, retribuita con bassi salari, spesso corrisposti in derrate alimentari, indumenti e alloggi, che costituiscono il motore primo che mette in moto tutti i meccanismi che fanno vivere il palazzo.
L’ottocento segna la definitiva destrutturazione della struttura operativa che fa vivere i palazzi nobiliari legata essenzialmente alla crisi della nobiltà feudale che è profondamente segnata dal riformismo borbonico.
La costituzione del 1812 recita:
«Non ci saranno più feudi, e tutte le Terre si possederanno in Sicilia come in allodi … Cesseranno ancora le giurisdizioni baronali e quindi i baroni saranno esenti da tutti i pesi a cui finora sono stati soggetti per tali diritti feudali. Si aboliranno le investiture, rilevj, devoluzioni al fisco ed ogni altro peso inerente ai feudi…». L’articolo XI delle “basi” della Costituzione siciliana del 1812 chiuse la lunga stagione di un istituto giuridico che condizionò profondamente, dal momento dell’insediamento normanno, la storia politica, sociale ed economica del regno di Sicilia.
Queste poche righe, sviluppate poi in uno specifico decreto, segnano la fine della feudalità e insieme alla abolizione del maggiorascato, che permette la concentrazione di tutto il patrimonio nelle mani del primogenito, erodono l’accumulo della rendita che permette di destinare risorse non indifferenti al mantenimento dei palazzi. Il peso sempre crescente della neonata borghesia, impersonata sia dai mercanti nelle città sia dai gabellotti nelle campagne, crea nuovi equilibri e nuove ricchezze. Ai palazzi all’interno della città si sostituiscono le ville che crescono alla periferia della città, come quelle dei Florio o dei Withaker, circondati da giardini con costi gestionali molto più bassi rispetto ai palazzi di città e soprattutto che richiedono un impiego di personale ridotto rispetto alle strutture nobiliari urbane.
Ma questa è un’altra storia che andrebbe riletta cercando di concentrarsi nella lettura della loro contabilità.