Emanuele Macaluso, “un siciliano”. Eretico
Intervista ad Antonello Cracolici
Qual è il tuo ricordo di Emanuele Macaluso?
Al di là della sua biografia, nota a tutti anche attraverso i suoi libri, vorrei soffermarmi sull’uomo. Macaluso è stato, prima di tutto, un siciliano che ha avuto la capacità di leggere le contraddizioni della nostra epoca, attingendo al bagaglio di esperienze accumulate nel corso di un periodo storico in cui la miseria, la fame e l’assenza di diritti erano all’ordine del giorno. La conquista da parte degli ultimi di migliori condizioni di vita, secondo Macaluso, non poteva prescindere dalla lotta sociale. Un uomo, dunque, che ha saputo coniugare la grande idealità del suo essere comunista e riformista con una dimensione pragmatica della politica, nella consapevolezza che si può cambiare la realtà solo conoscendola e vivendola in prima persona, non astraendosi da essa.
Nel tuo intervento all’Ars, tu hai definito Macaluso “un siciliano”. Ed effettivamente basta dare uno sguardo alla sua attività parlamentare per capire quanto fossero importanti per lui il rapporto tra lo Stato e le regioni e lo sviluppo del Mezzogiorno. Penso, ad esempio, alle proposte di legge di cui è stato primo firmatario.
Emanuele Macaluso era un autonomista. È stato uno dei testimoni della costruzione del processo autonomistico della Regione, che ha colto in quella autonomia una grande opportunità per la Sicilia. Ricordiamo, ad esempio, che la nostra isola è stata pioniera nei processi di riforma agraria anticipando, su questi temi, il contesto nazionale. È anche grazie alle lotte sociali che la Sicilia ha conosciuto momenti di avanzamento in alcune grandi battaglie che hanno segnato la storia del movimento contadino. In tal senso, possiamo affermare che la concezione di autonomia di Macaluso non era di tipo rivendicazionista. La definirei, piuttosto, un’autonomia delle opportunità, anticipatrice dei processi di riforma sociale della nostra regione prima e, successivamente, del nostro Paese.
Come visse Macaluso la svolta della Bolognina?
Macaluso, com’è noto, faceva parte della componente migliorista del partito, la quale guardava all’unità a sinistra con i socialisti, in anni in cui i comunisti italiani erano divisi dalla grande polemica scoppiata tra Craxi e Berlinguer.
Il contrasto tra comunisti e socialisti era forte, in certi casi investiva persino i rapporti di natura personale. Occhetto era più propenso all’incontro con i cattolici, perché seguiva l’insegnamento berlingueriano classico. Macaluso, assieme a Napolitano, si fece interprete, in un certo senso, del riformismo di Amendola. Nel 1992, fu capolista del Pds (per la Camera, nella Sicilia occidentale n.d.r) ma non fu eletto. Non aderì invece al Pd.
Perché?
Perché secondo lui il Pd aveva rinunciato al ruolo di partito prevalente della sinistra italiana. Il Pd ha rappresentato la maturazione del progetto politico dell’Ulivo, che consisteva sostanzialmente nell’incontro con le forze del cattolicesimo moderato. Macaluso, invece, ha sempre sostenuto l’idea di un partito di massa, un partito del popolo, che avesse un ancoraggio valoriale molto più marcato e che fosse in grado di presentarsi non come mero contenitore, ma farsi esso stesso contenuto di idee e progetti.
Macaluso non ha mai interpretato l’adesione al partito come appartenenza acritica a una chiesa. Ne parla in modo illuminante, ad esempio, nel suo libro “50 anni nel PCI”, facendo anche riferimento alla lettera con la quale Giuliano Ferrara spiega le ragioni del suo abbandono del partito. Come definiresti questa posizione di Macaluso?
Macaluso era un eretico. Faceva parte della migliore tradizione dell’“aristocrazia comunista”, pur non essendo affatto un aristocratico.
In che senso?
Nel senso che lui faceva parte di una generazione che viveva il Partito comunista e il proprio essere di sinistra anche in una dimensione intellettuale, evitando accuratamente di guardare solo alla cronaca, posizione questa che di solito fa perdere di vista azione e obiettivo.
Tu hai conosciuto Macaluso quando eri ancora molto giovane. Cosa ti è rimasto particolarmente impresso del tuo primo incontro con lui?
Emanuele Macaluso, per la mia generazione, rappresentava la “destra” del partito. Io stesso, assieme ad altri giovani, fui promotore di una battaglia politica contro di lui. Quando in Sicilia arrivò Folena, nel febbraio o marzo del 1989, alla vigilia della Bolognina, Macaluso era per noi un uomo lontano, sebbene siciliano. Anche Pio La Torre veniva percepito così. Solo che, nel caso di Pio La Torre, la tragica fine contribuì a farne un mito per la mia generazione, a prescindere dagli orientamenti politici.
Macaluso era l’espressione di un’idea di partito che la mia generazione voleva cambiare. Nel 1992, come ho detto prima, fu candidato come capolista alla Camera; Folena era il candidato numero due. Per la prima volta, in Italia, si votava con la preferenza unica. Attorno a queste due candidature si consumò uno scontro politico dentro il partito. I giovani di allora sostennero Folena, un’altra parte del partito – quella storica – si schierò con Macaluso. Noi vincemmo la battaglia perché alla fine fu eletto Folena. Quello fu un momento di svolta nella storia del partito siciliano; quello scontro politico aprì una fase nuova. Paradossalmente, dunque, posso dire di averlo conosciuto in occasione di una battaglia politica di cui lui era uno dei protagonisti.
Poi, negli anni, ho imparato a conoscerlo, ad apprezzarne gli scritti, la lucidità e l’intelligenza nel saper andare oltre la cronaca. Mi ha sempre colpito la stella fissa dei suoi ragionamenti. La capacità di guardare alle persone più che alla dimensione identitaria. La forza di un ancoraggio alla realtà, alle sue contraddizioni. La sua eresia, il suo essere controcorrente. Posizioni che emergono persino sulla questione della giustizia.
Fai qualche esempio.
Quando, nel 1987, esplose la polemica sui “professionisti dell’antimafia” sollevata da Sciascia, Macaluso si schierò dalla parte dello scrittore. In un momento in cui, peraltro, l’opinione pubblica mostrava delle posizioni assai estremiste.
Eravamo alla vigilia delle stragi che segneranno una fase nuova della politica siciliana, penso ad esempio al processo ad Andreotti. In quell’occasione Macaluso, che attribuiva alla politica il ruolo di regolatrice della società, mostrò di non accettare l’idea di una politica disposta ad abdicare e a cedere alla magistratura l’esercizio della funzione di giustizia. In quel modo, infatti, si sarebbe perso di vista il tema della giustizia sociale, e questo per Macaluso era inaccettabile. In quel contesto di grandi tensioni, tuttavia, la sua posizione appariva come un controcanto. Forte era infatti la richiesta della forca, delle manette, della galera. Un contesto nel quale stavano maturando le premesse del crollo della Prima Repubblica. Macaluso non accettò mai che la funzione sociale della magistratura potesse ridursi all’aspetto meramente repressivo. Per lui, infatti, la politica che cedeva la propria funzione sociale alla magistratura non solo mostrava tutta la sua debolezza, ma avrebbe finito per sfavorire le classi sociali più deboli.
Del resto, se interpretassimo la giustizia come unico strumento di regolazione sociale, molte delle lotte di rivendicazione della nostra storia verrebbero spazzate via, a partire anche dall’esperienza dell’occupazione delle terre. Secondo questa interpretazione, infatti, i contadini degli anni Cinquanta stavano commettendo un reato. Il tema della giustizia sociale è fondamentale e posso affermare che è anche grazie a Macaluso se oggi posso definirmi un garantista. Considero il garantismo un valore intrinseco all’agire politico. La politica deve garantire i diritti di tutti. Non si può lasciare solo alla magistratura e alle aule di tribunale il compito di decidere chi sono i buoni e chi, invece, i cattivi. Altrimenti si sfocia nella repressione. Bisogna, invece, che la giustizia fatta dalla magistratura sia accompagnata dalla funzione sociale della politica. Ed è questo, in fondo, uno dei messaggi che ci ha lasciato Macaluso.
Secondo te, quale aspetto della figura e della storia di Emanuele Macaluso andrebbe approfondito dagli studiosi?
I suoi scritti, senza dubbio. Specialmente quelli più recenti sulla pandemia. Le polemiche scatenatesi qualche mese fa sugli anziani e, dunque, sui più deboli sono state da lui analizzate con grande lucidità. La sua non era, si badi bene, solo una difesa degli anziani. Ancora una volta, da quelle riflessioni, emergono la sua visione politica e il modo in cui affrontare la ricostruzione post-pandemica.
Un Paese che contempla la possibilità di poter fare a meno di una parte importante di se stesso, come lo sono gli anziani, è una spia, secondo Emanuele Macaluso, della crisi della politica. Una politica che non ha né visione né ampio respiro né, tantomeno, progettualità. Mi ricordo, a tal proposito, il suo discorso in occasione del 37° anniversario della morte di Pio La Torre (30 aprile del 2019 n.d.r). I destinatari di quel messaggio sono stati soprattutto i giovani. Macaluso ha spiegato loro come la lotta alla mafia non possa ridursi a una celebrazione annuale. La lotta alla mafia deve diventare una prassi quotidiana il cui obiettivo è quello di strappare il consenso ai mafiosi. La mafia gode del consenso e dell’appoggio di tante persone, specialmente di quelle più deboli e fragili. E allora, in quest’ottica, la funzione sociale diventa imprescindibile nella lotta alla mafia.
Non basta solo il lavoro della magistratura. Sono necessarie la lotta politica alla mafia e la conquista degli ultimi, i quali risultano più facilmente manipolabili dalle sirene del potere e del guadagno facile. La lotta alla mafia è un fatto culturale e la politica ha un senso solo se è in grado di spostare i rapporti di forza presenti nella società.