La lunghissima durata della questione meridionale – parte seconda
La lunga durata del brigantaggio, della mafia, della camorra e della ‘ndrangheta
In Italia il fenomeno brigantesco è durato quantomeno dal Medioevo sino alla fine del secolo XIX e ha compreso, con maggiore o minore intensità, un poco tutte le aree geografiche, anche se ha raggiunto il suo massimo grado nel Meridione (1). L’esistenza di briganti sin dal secolo XVI e prima ancora e la loro individuazione giuridica e anche linguistica come criminali sono ambedue saldamente provate sulla base di molteplici fonti. Il termine brigante convive nei secoli con molti altri sinonimi. La quantità di fonti che documentano la presenza massiccia e continua di tali sinonimi è incalcolabile; i termini briganti, banditi, fuorbanditi, malfattori, mali christiani, scorridori di campagna, grassatori, bravi, sicari ecc. si ritrovano in abbondanza nelle ordinanze dei secoli XVI-XVII con le diverse Prammatiche, Bandi, Costituzioni, Circolari, Capitoli, contro le bande che imperversavano nel Mezzogiorno (2). Un grosso argomento, tra l’altro, contro l’ipotesi del brigantaggio postunitario quale guerriglia politica di matrice borbonica è l’esistenza plurisecolare del fenomeno brigantesco (3).
Lo sbaglio nel sostenere la diversità delle mafie dalle altre forme criminali
Se si considera la lunghissima durata del brigantaggio hanno sbagliato quindi Enzo Ciconte, Francesco Forgione e Isaia Sales quando, scrivendo dell’origine di mafia, camorra e ‘ndrangheta, hanno sostenuto che a dimostrare la diversità delle mafie dalle altre forme criminali presentatesi sulla scena della storia è la loro capacità di lunga durata e la loro riproducibilità (4). Hanno fatto bene, invece, i suddetti autori a scrivere che se mafia, camorra e ‘ndrangheta si affermano oltre ogni previsione a partire dall’Unità d’Italia in poi, forse è il caso di guardare all’insieme delle comuni circostanze storiche alla base della loro origine e del loro successo; l’impressione è che si tratti di un comune modello vincente, che va definito appunto «modello mafioso». Si può e si deve parlare, quindi, di una storia unitaria delle tre grandi criminalità di tipo mafioso in Italia. Secondo loro ogni organizzazione criminale ha una sua singolarità, un nome proprio, una identità ben precisa, un autonomo svolgimento; ogni organizzazione cioè nasce e prospera in un determinato ambiente storico, economico, sociale, culturale e politico ma tuttavia è facile notare come tra i diversi agglomerati criminali molti sono i punti di contatto, i nessi, le interconnessioni, le similitudini (5). Quando si cominciò a parlare di mafia o quando si diede tale nome a ciò che prima veniva definito diversamente la mafia era già in un periodo di forte espansione e veniva definita come un grande pericolo; è impossibile perciò che un fenomeno nato appena dopo il 1860 avesse acquisito un ruolo così evidente e forte in appena 15 anni. La sua forza nel periodo dei primi rapporti e dei primi studi lascia ampiamente immaginare una origine precedente al periodo unitario anche se chiamata con un diverso nome. In Calabria c’erano gli «Spanzati» che già a fine Settecento svolgevano un’attiva funzione di mediazione sui prezzi delle merci pregiate mentre a Napoli si identificavano i camorristi con i cosiddetti Lazzari, protagonisti della scena napoletana con la rivoluzione di Masaniello e poi con il fallimento della rivoluzione del 1799 (6).
Ciconte, Forgione e Sales hanno sostenuto, poi, che è sempre bene ribadire che gli indubbi aspetti culturali del consenso mafioso sono frutto di una lunga storia e non di una naturale predisposizione delle popolazioni coinvolte (7). Ma che significa questa affermazione? Ai primordi della storia non c’era una naturale predisposizione dei meridionali a capire e riconoscere la mentalità mafiosa ma nel corso dei secoli questa predisposizione si è affermata, anche dal punto di vista genetico; le varie generazioni che si sono succedute hanno tramandato anche questa mentalità.
La mancanza di una forte e duratura riprovazione verso le loro azioni
Secondo i suddetti autori i mafiosi sono durati tanto a lungo perché non c’è stata da parte delle classi dirigenti né del popolo una forte e duratura riprovazione verso le loro azioni e verso i loro comportamenti; per un lungo periodo storico i mafiosi non coincidevano con i delinquenti né per i rappresentanti dello Stato centrale né di quello locale, né per le classi dirigenti né per il popolo comune, né tantomeno per la Chiesa cattolica e attraverso questa complessa costruzione di mentalità la mafia si è legittimata allo stesso modo della violenza baronale (8). Quando i fenomeni criminali durano tanto a lungo (e quando tutti i tentativi di reprimerli o di ridimensionarli si sono dimostrati inefficaci) ciò vuol dire che questi fenomeni non appartengono solo alla storia della criminalità, ma sono parte integrante della storia d’Italia, fanno parte cioè a pieno titolo della storia sociale, civile, politica, religiosa ed economica del nostro Sud e dell’intero Paese; non si tratta, dunque, di storia separata, ed è una storia fatta non solo di biografie di assassini e delinquenti. Per i suddetti autori la storia della criminalità è una specie di autobiografia della società italiana e meridionale nel loro insieme, ne rappresenta uno degli elementi della sua evoluzione e trasformazione storica; non si può fare storia del nostro Paese e del Sud prescindendo dal peso e dal ruolo che vi hanno rivestito i criminali mafiosi e le loro relazioni con le classi dirigenti che ufficialmente quella storia la scrivevano. Ma subito dopo hanno opportunamente affermato che la verità è che la storia delle mafie è nei fatti storia dei rapporti e delle relazioni che l’insieme della società ha stabilito, nel tempo, con i fenomeni criminali e viceversa perché sono queste relazioni che spiegano tutto; senza queste relazioni, senza questi rapporti, le mafie non sarebbero tali, non sarebbero durate tanto a lungo, non peserebbero come un macigno sul passato, sul presente e sul futuro dell’intera nazione. Per questo si parla tanto di zona grigia o di borghesia mafiosa, termini che danno l’idea di lunghi processi di relazioni e di rapporti, di convenienze economiche e di cointeressenze varie, di condivisioni di valori e di obiettivi di conservazione politica e di immobilismo sociale (9).
L’origine storica dei problemi del Mezzogiorno di oggi
Gli storici Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone hanno scritto recentemente un libro sul Mezzogiorno il cui contenuto è quasi interamente condivisibile (10) La loro analisi dei mali del Sud dell’Italia comincia con l’affermazione che esiste un’unica entità definibile in quanto tale come «il Mezzogiorno» senza ulteriori specificazioni. Secondo loro si tratta di un punto di vista fondato su alcuni indiscutibili elementi: l’appartenenza per secoli di tutto il territorio, dal Tronto a Capo Passero, a una sola compagine statale; la generale debolezza, entro i suoi confini, della dimensione comunale e cittadina in genere, dominante invece in quasi tutto il resto d’Italia; dappertutto la forza di influssi culturali e religiosi originati dalla molteplicità dei contatti mediterranei; la lunga permanenza del feudo e del latifondo; infine, quasi dovunque, una certa consuetudine dei rapporti sociali con la violenza, e la presenza di storiche organizzazioni criminali (11). E’ questo il motivo per cui, presumibilmente, tutti coloro che tra l’Ottocento e il Novecento, sulla scia di Franchetti e Sonnino, s’interessarono ai problemi del Mezzogiorno – raccolti sotto l’etichetta di «questione meridionale» – dando vita per l’appunto a quel che si chiama «meridionalismo», non mancarono mai, pur soffermandosi sugli aspetti di natura economica, di sottolineare quelli più propriamente culturali che attengono alla storia delle mentalità (12). L’opinione dei suddetti autori è che quello che appare sorprendente – e per certi versi persino drammatico – è che, a distanza di un secolo, Villari e Galasso giravano entrambi intorno allo stesso problema, sembravano scoprire lo stesso vuoto, che si rivelava dietro la volatilità d’intenti denunciata dal primo, e la «disgregazione» sottolineata dal secondo; la questione adombrata non era altro che la frantumazione e la mancanza di adeguati legami sociali del popolo meridionale e delle sue classi dirigenti, non l’inesistenza di queste ultime bensì la loro mancanza di coesione e di connessioni intellettuali e sociali, la loro incapacità di aggregarsi intorno a un disegno e a un progetto di salvezza – e dunque la crisi permanente del loro rapporto con la politica e con la possibilità di darsi una rappresentanza capace di farsi carico del destino della propria gente e di condurla verso il riscatto (13).
Un insieme di modi di pensare e di comportarsi che si esprime nella forma di una radicata indifferenza
Secondo i due autori sarebbe sciocco immaginare che dietro ogni fallimento o inadeguatezza ci sia sempre, direttamente identificabile, la delinquenza organizzata e che c’è di sicuro molto altro, più impalpabile, meno cruento, ma anche situato più in profondità; di certo, però, dietro la rovina di tutto ciò che è pubblico c’è nel Mezzogiorno qualcosa che è compatibile se non omogeneo rispetto al nocciolo duro dell’autentica mentalità criminale; qualcosa che è insieme causa (anche se non la sola) ed effetto della presenza delle vere e proprie organizzazioni camorristiche, ’ndranghetiste o mafiose in senso stretto, qualcosa che non si può definire meglio se non come una cultura diffusa dell’extralegalità. Si tratta di un insieme di modi di pensare e di comportarsi che si esprime nella forma di una radicata indifferenza verso quasi ogni norma dettata dal potere legale, di completa estraneità rispetto a ogni dimensione collettiva, a ogni comportamento conforme alle regole emanate dallo Stato; una specie di apatia – un atteggiamento tra indolenza e fastidio, pronto ad accettare anche il peggio, e a adattarvisi, pur di ricavarne qualche vantaggio personale, anche minimo – penetrata in tutti gli strati sociali, che in un certo senso fa da terreno di coltura rispetto all’illegalità vera e propria, quella dell’autentica delinquenza, perché le spiana la strada, ne è il volto non clandestino e non sanguinario, ma pur sempre complementare (14).
Sostenere la carenza nel Mezzogiorno di un senso civico è politicamente scorretto
La loro opinione è che sollevare il tema della carenza nel Mezzogiorno di un senso civico adeguato alle esigenze di un grande Paese che ha fatto tutti i conti con la modernità, e magari aggiungere che una simile lacuna spiana indirettamente la strada alla mafia e alla camorra, suona a molti politicamente scorretto, come un giudizio dal sapore tendenzialmente razzista. Quest’atteggiamento è tipico soprattutto di quel particolare mainstream mediatico-culturale convinto, più o meno in buona fede, che qualsiasi osservazione critica nei confronti dei comportamenti di un gruppo o di una qualunque collettività possa già rappresentare il primo passo sulla via verso Auschwitz e che dunque ogni giudizio del genere vada comunque rigettato a priori; con il risultato di precludersi così un’autentica comprensione critica della realtà e di lasciare molte domande senza risposta, per non dire della frattura, che in tal modo si viene a creare, fra senso comune (che mantiene una presa diretta sulle cose) e discorso pubblico, ingessato nella gabbia dei suoi interdetti (15).
L’opinione di Galli della Loggia e Schiavone è che per un lungo tratto dei nostri ultimi decenni nell’approccio alla questione meridionale sia stata assai evidente la diversità tra senso comune da una parte e opinione ufficiale del Paese dall’altra – cioè quella della politica e dei ceti più colti – che considerava il divario Nord-Sud essenzialmente come il prodotto solo di una grave e perdurante arretratezza economica, sorvolando sugli aspetti culturali e di mentalità e sulla loro autonomia; per concluderne che, dunque, l’eliminazione, grazie ad appositi interventi pubblici, del ritardo produttivo avrebbe implicato da solo, in modo quasi automatico, anche un profondo cambiamento sociale e, con esso, la fine di ogni divario. Ma mentre l’Italia «ufficiale» la pensava in questo modo, il Paese «reale» – il suo senso comune, la sua coscienza diffusa – continuava invece a credere che le cose stessero diversamente e cioè non solo che le diversità culturali del Mezzogiorno rispetto al resto d’Italia non fossero un dato dipendente – almeno nel breve e nel medio periodo – unicamente da ragioni economiche in senso stretto ma che proprio la loro esistenza in quanto tale costituisse un formidabile ostacolo a ogni radicale miglioramento delle condizioni economiche e civili di quelle regioni, che la realtà fosse cioè più complessa di come la si voleva far apparire, e che semplificarla in nome di una versione economicista del «politicamente corretto» non aiutasse (16).
Franco Pelella
Note:
- MARCO VIGNA: Brigantaggio italiano. Considerazioni e studi nell’Italia unita; Interlinea, Novara, 2020, p. 17
- MARCO VIGNA: Brigantaggio italiano. Considerazioni e studi nell’Italia unita, cit., p. 337.
- MARCO VIGNA: Brigantaggio italiano. Considerazioni e studi nell’Italia unita, cit., p. 335.
- ENZO CICONTE, FRANCESCO FORGIONE, ISAIA SALES: Le ragioni di un successo, in ID.: (a cura di) – Atlante delle mafie. Storia, economia, società, cultura; Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012, vol. I, p. 29.
- ENZO CICONTE, FRANCESCO FORGIONE, ISAIA SALES: Le ragioni di un successo, cit., p. 14.
- ENZO CICONTE, FRANCESCO FORGIONE, ISAIA SALES: Le ragioni di un successo, cit., p. 43. Ho sostenuto una tesi del genere, a proposito della storia della delinquenza organizzata a Napoli, nell’articolo La delinquenza organizzata. Un elemento strutturale della società napoletana (2016). (Si veda https://www.academia.edu/38759420/FRANCO_PELELLA_La_delinquenza_organizzata_Un_elemento_strutturale_della_societ%C3%A0_napoletana).
- ENZO CICONTE, FRANCESCO FORGIONE, ISAIA SALES: Le ragioni di un successo, cit., p. 21.
- ENZO CICONTE, FRANCESCO FORGIONE, ISAIA SALES: Le ragioni di un successo, cit., p. 41.
- ENZO CICONTE, FRANCESCO FORGIONE, ISAIA SALES: Le ragioni di un successo, cit., p. 33.
- ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, ALDO SCHIAVONE: Una profezia per l’Italia. Ritorno al Sud; Mondadori, Milano, 2021.
- ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, ALDO SCHIAVONE: Una profezia per l’Italia, cit., pp. 106-107.
- ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, ALDO SCHIAVONE: Una profezia per l’Italia, cit., pp. 60-61.
- ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, ALDO SCHIAVONE: Una profezia per l’Italia, cit., pp. 79-80.
- ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, ALDO SCHIAVONE: Una profezia per l’Italia, cit., pp. 56-57.
- ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, ALDO SCHIAVONE: Una profezia per l’Italia, cit., pp. 62-63.
- ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, ALDO SCHIAVONE: Una profezia per l’Italia, cit., pp. 63-64.